Una vita: ritratto di una donna condannata alla sensibilità
C'è la crudeltà di un'esistenza sempre al di sotto dei propri sogni, che è qualcosa che appartiene all'umano, che travalica i secoli: e va al di là di un matrimonio banalmente infelice, ma ha che fare piuttosto con un destino che sferza le nostre aspirazioni, che si arroga il diritto di veto davanti alla nostra voglia di credere, di sperare, di illuderci. C'è questo sentimento, la delusione di una promessa mancata, un torto che prevale sulla ragione, nell'attento, prezioso, ritratto di signora che il francese Stéphane Brizé traccia con bella calligrafia in <Una vita>, costringendo l'immagine nel vecchio 4/3 per soffocare la libertà di una donna condannata alla sensibilità: la stessa che esce dalle pagine impolverate del primo Maupassant (e delle sue <tranches de vie>) per indossare l'abito di un melodramma solo apparentemente classico.
Storia di una moglie e di una madre tradita nella Normandia della prima metà dell'800, <Una vita>, presentato all'ultima Mostra di Venezia (dove vinse il premio Fipresci), nell'impossibilità conclamata di un amore che si rivela troppo spesso a senso unico tesse la parabola, colma di disillusione e amarezza, di un'aristocratica (Judith Chemla, molto brava) costretta a scoprire, in un mondo regolato dalla menzogna, il carattere effimero della felicità.
Un percorso tragico (ma non solo), condiviso con ispirato minimalismo da un autore che, fotografata con scarno rigore la contemporaneità ne <La legge del mercato>, sale ora sulla macchina del tempo per riprodurre affetti speciali e stagioni emotive che non hanno scadenza. E alla fine va ben al di là di una confezione con tutti i crismi, grazie a una costruzione per ellissi molto efficace, che conosce strappi notevoli e momenti di passione non artificiosa.