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The French Dispatch: il film pop-up di un regista che libera la testa

Ci sono molti aggettivi, molte parole, moltissime (morbide, colorate, lievi), per descrivere il cinema raffinato e irresistibile di Wes Anderson. Ma forse ce n'è una che le racchiude tutte: delizioso. Fiabescamente vintage, surreale, dolcemente ironico: ma più di tutto delizioso. Non sfugge alla regola nemmeno «The French Dispatch», un film che si sfoglia come una rivista, l'ultimo lavoro del regista texano sette volte candidato all'Oscar (che però - ma siete matti? - non ha mai vinto): girato con il tocco del grande illustratore, forte di un'immaginazione sempre fertilissima, è una lettera d'amore al giornalismo, capace di passare con disinvoltura estrema dal colore al bianco e nero, dai 4/3 allo schermo pieno. Divisa in vari capitoli (come le sezioni di un giornale), la pellicola, godibilissimo divertissment dai colori pastello (quel giallo senape, gli azzurri, i verdi, i rossi: chapeau), racconta di una redazione americana con base nella Francia del XX secolo la cui chiusura ormai sembra imminente... Ma nell'ufficio del caporedattore (Bill Murray, l'attore feticcio di Anderson) fa bella mostra di sè una scritta che non lascia adito a dubbi: «Non piangere». Arte moderna, il Maggio del '68, la venerazione per gli chef (qui ce n'è uno che si chiama Nescaffier...): l'autore fuori dagli schemi di «Moonrise kingdom» e «The Grand Budapest Hotel» guarda stilisticamente al suo adorato New Yorker, facendosi gioco degli stereotipi per proporre col sorriso sulle labbra i suoi elaboratissimi quadri vivant, non disdegnando nemmeno l'utilizzo del fumetto. Vera e propria gioia per gli occhi, sospesa tra la fantasiosa rivisitazione d'epoca e il gusto ingegnoso per l'inquadratura (sovraffollata di oggetti, di particolari, di persone), «The French Dispatch» è un caleidoscopico film sul mondo che (purtroppo) cambia, la nostalgia di qualcosa che non è mai esistito, pieno di idee (il detenuto che dipinge la bella guardia carceraria, la partita a scacchi a distanza tra il leader del movimento studentesco e il governo...) e ricchissimo di star (l'elenco degli amici di Wes è davvero infinito: da Benicio Del Toro a Owen Wilson, da Frances McDormand a Timothée Chalamet, da Léa Seidoux a Christoph Waltz....): si apre come un libro pop-up, libera la testa e porta beneficio anche agli sguardi affaticati.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Zoolander 2: il sequel è meno figoso nonostante la passerella delle celebrities

<Non puoi uccidere la moda!>. <Ho paura che la moda si sia già uccisa da sola...>.

E' un film vipposissimo e stiloso, remix ultra pop (e post demenziale) di un cult movie <postumo> (accolto con discreta indifferenza alla prima uscita, è diventato col tempo, anche in Italia, un venerato oggetto da collezione, come certe borse limited edition), il sequel fashionista di <Zoolander> che Ben Stiller ha girato in una Roma da cartolina 15 anni dopo (e si sentono tutti) dall'eccentrico originale, ormai diventato un marchio riconosciuto, un brand. <Costretto> dalle pressioni dei fans a risalire in passerella, Stiller al secondo tentativo assomiglia però a quei campioni che, abbandonata l'attività agonistica, tentano di tornare alle gare con esiti non proprio entusiasmanti: la forma è svanita, l'effetto sorpresa anche. E hai voglia di inseguire le tracce di simulacri anni '80 e '90 e di certe icone di ritorno (la Fiat 500, ad esempio) nel frullato massimo, ma <figoso> fino a lì, delle mille e una citazione. Perché sì, la banda <Zoolander> è ancora idiota abbastanza da strappare il sorriso, ma la pellicola, più che per la trama, insulsa e insignificante, attira l'attenzione solo grazie alla carrellata senza sosta delle celebrities della moda e non (da Anna Wintour - <la strega bianca di Narnia> -, potentissima direttrice di <Vogue>, allo stilista Valentino, grande a mettersi in gioco, ma sempre più simile al suo imitatore, da Sting con tanto di barbone ieratico a Katy Perry, da Marc Jacobs a Justin Bieber, che mentre muore si fa un selfie...), autoironici comprimari di un film-party dove anche i divi (Kiefer Sutherland, Susan Sarandon che cita <The Rocky horror picture show>, John Malkovich, Benedict Cumberbatch...) si prendono in giro, costellando di cammei, sulle note di hit di 30 e più anni fa, le avventure retro Bond e <stravistiche> (per dirla nella lingua Zoolù...) di Derek Zoolander (Stiller) e dell'inseparabile amico Hansel (Owen Wilson), super modelli ormai fuori moda che per rientrare nel giro si aggrappano (in ogni senso) a una procace agente dell'Interpol (Penelope Cruz), decisa a fare luce sugli omicidi di alcune rock star. Il mix delirante di parodia, family drama, buddy movie, commedia e spy story è però, oltre che volutamente esteriore, vuoto cavo all'interno e rischia di risultare indigesto a chi bazzica poco nel mondo fashion e un po' stantio anche agli amanti del primo film. Che speravano di rifarsi occhi e guardaroba: ma si devono accontentare di un cappotto vintage già liso.

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