Recensione, 2025, Festival Filiberto Molossi Recensione, 2025, Festival Filiberto Molossi

L’orto americano: Avati coltiva i frutti del dubbio

Il regista che parlava coi morti: a 86 anni Pupi Avati, da sempre a suo agio nel torbido, trova al confine tra l'acqua dolce del Po e quella salata del mare un film con cui riabbracciare il gotico, coltivando ne «L'orto americano» i germogli della follia.

Girato in un bianco e nero severo e denso, il nuovo film del regista bolognese di «Regalo di Natale» e «Una gita scolastica», cita i classici greci (da Archiloco a Bacchilide, passando per Pindaro) e richiama alla memoria certe atmosfere noir della Hollywood degli anni Quaranta, seguendo nell'immediato dopoguerra il tortuoso percorso di un giovane scrittore incompreso che si troverà a indagare sulla scomparsa di una bellissima infermiera che aveva incrociato in Italia per un istante, innamorandosene al primo sguardo...

Suggestivo nelle diverse ambientazioni, con dettagli horror che richiamano alla memoria alcuni mostri della cronaca nera (come quello di Firenze), il film, tratto da un romanzo dello stesso regista e interpretato da Filippo ScottiE' stata la mano di Dio»), Roberto De Francesco e da molti fedelissimi del regista (da Andrea Roncato al parmigiano Alberto Petrolini), confonde le acque, ma non non sempre il congegno narrativo appassiona e la risoluzione (parziale) del giallo appare un po' telefonata, suggerita, anche se l'autore privilegia un finale aperto, sospeso. Perché «L'orto» di Avati riserva allo spettatore i frutti più amari: quelli del dubbio.

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