Santiago, Italia: Moretti, “io non sono imparziale”
<Io non sono imparziale>.
Fossi nel cinema italiano (e nella Sinistra, ammesso che ne esista ancora una), io uno come Nanni Moretti me lo terrei stretto. Perché l'uomo potrà non piacere a tutti, ma il regista, l'intellettuale, è uno dei pochi disposti ancora a posare la sua cinepresa su quei fatti che la Storia non ha voglia di raccontare: uno dei pochi che non hanno paura di schierarsi, di prendere posizione, di scavare un solco, di difendere un'identità, un sentimento, di fare scudo, se necessario, a un'idea. In quel suo non tirarsi indietro, ma anzi nel fare un passo avanti senza chiedersi se si troverà o meno solo, c'è molto della forza di un film semplice, a tratti addirittura scoperto, eppure alto e attualissimo: un documentario secco ed esemplare che si volta indietro, allargando lo sguardo nelle crepe del passato per smascherare e metterci di fronte alle miserie del presente.
Rievoca il Cile del '73, del golpe militare atroce e vergognoso, ma parla soprattutto di noi, di quello che siamo stati e non siamo più, <Santiago, Italia>, il film con cui l'autore di <Mia madre> e <Habemus Papam> ci restituisce, non senza nostalgia, un'Italia solidale che si è smarrita nel tempo, incapace allora di voltarsi dall'altra parte, di fare finta di niente, ma al contrario pronta ad accogliere e integrare. L'unico Paese in Europa che si rifiutò di legittimare la dittatura di Pinochet: lo stesso che ospitò e aiutò a espatriare (fondamentale in questo senso l'operato del diplomatico parmigiano Roberto Toscano) i molti cileni che riuscirono a superare il muro (fortunatamente basso) della nostra ambasciata.
Alternati filmati d'epoca, documenti storici (potente, ancora oggi, l'ultimo messaggio di Allende), alle testimonianze di chi c'era, <Santiago, Italia> fa scaturire dalle parole, dai ricordi e dalle cicatrici immagini potenti (l'aguzzina che chiede alla prigioniera torturata di insegnarle a fare la maglia, la Croce Rossa che lancia ai detenuti caramelle come fossero scimmie...), elaborando l'anatomia di un omicidio: quello della democrazia. Andando oltre però l'orrore di quei giorni - e la commozione di adesso che si affaccia improvvisa e buca lo schermo, rigandolo di lacrime -, per riflettere sulla condizione (<scappavano dal Cile come scappano oggi dall'Africa>) di rifugiato: e sul dovere civile e morale di salvare chi chiede aiuto. Qualcosa che nel '73 a molti sembrò ovvio: ma che 45 anni dopo, un Paese smarrito nell'individualismo, cinico e indifferente, fatica a comprendere.