2024, Recensione Filiberto Molossi 2024, Recensione Filiberto Molossi

Civil War, gli Stati disuniti d'America

Giureresti che è stato concepito nella furia delle immagini dell’assalto al Campidoglio, di quella vergogna in mondovisione, e invece l’idea è di qualche mese prima: ma è figlio di quell’aria lì, «Civil War», di un tempo arrabbiato e divisivo, dell’epoca folle dell’odio, della protesta, del manganello. Se il film di Alex Garland - inglese pratico di scenari inquietanti ed estremi (da «28 giorni», di cui ha scritto la sceneggiatura, a «Ex machina») - ha però un pregio è quello di non spiegare niente: ed entrare a gamba tesa nella storia, senza prologhi, didascalie, date in calce. Senza buoni né cattivi, o forse solo questi ultimi, né uniformi di un colore diverso: perché «qualcuno vuole ucciderci e noi vogliamo uccidere loro». Punto. E - forse - a capo.

Così, partendo (quasi) dalla «fine», Garland scatta con realismo fotogiornalistico l’istantanea di un’America in guerra con se stessa, paradiso perduto per sempre, Paese smarrito, colpito e colpevole: e nell’incontro tra war e road movie, lungo le strade desolate degli Stati disuniti d’America, dove fiamme e distruzione si divorano l’umanità (con un che di apocalittico che ricorda, anche per quell’incipit così diretto, «The road» di McCarthy), racconta la morte di una nazione.

In un futuro mai così contemporaneo, una famosa fotografa parte con un collega reporter, un vecchio giornalista e una pivellina alle prime armi in direzione di Washington: vogliono arrivare alla Casa Bianca per intervistare il presidente prima che venga deposto. E’ un viaggio all’inferno: forse lo sanno anche loro. E se non lo sanno se ne accorgeranno presto. Molto crudo (è il pregio più evidente), teso (si porta sempre il pericolo addosso, compagno inseparabile nel mestiere della verità), nell’occhio del ciclone dell’orrore (e dell’horror) della guerra, «Civil War», attraversato dai synth di una colonna sonora nervosa e maleducata (con tanto di chiusa di «Dream baby dream» dei Suicide), stecca però nel fare salire in quel furgone che va verso la capitale personaggi ad alto rischio di stereotipo - dalla grande fotografa cinica e disillusa (una sofferta Kirsten Dunst) all’anziano inviato all’ultimo ballo, passando per la ragazzina entusiasta e impacciata (Cailee Spaeny, la «Priscilla» premiata a Venezia) che vuole vedere il Male negli occhi -, la cui personalità ed evoluzione (così come anche la riflessione sull’etica e sui limiti dell’immagine) è peraltro piuttosto prevedibile.

Ma il film, d’altro canto, si dimostra solido e credibile nelle sequenze d’azione e se è vero che Garland si pavoneggia un po’ nei ralenti, quel suo realismo politico, spietato e dissonante, di un mondo alla fine, quella furiosa deriva a portata di Nikon, è la traccia di un talento inquieto che si discosta sempre dalla via maestra per seguire strade più accidentate e meno battute, nella speranza che il monito non si trasformi in profezia.

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Priscilla, Maria Antonietta a Graceland

Maria Antonietta a Graceland: un'altra eroina smarrita a corte, regina senza corona in cerca di un re, per Sofia Coppola: che porta sullo schermo «Priscilla», ideale controcampo al femminile del più pirotecnico «Elvis» di Baz Luhrmann. Basato sulla biografia dell'ex signora Presley, che ha anche prodotto il film, «Priscilla» coglie la solitudine di una «first lady» bambina (la 25enne Cailee Spaeny, una scoperta: Coppa Volpi alla Mostra del cinema di venzia per la migliore attrice), adolescente che sposò il suo idolo, primo grande amore della sua vita, a costo però della sua identità e libertà.

La non sempre facile convivenza col mito, i tradimenti, i sonniferi, le pistole: tra maglioncini d'angora e la moquette d'epoca, la Coppola azzecca con regia rock la carta da parati (attenti e cool sia decor che ricostruzione, usati in senso non ornamentale o puramente estetico, ma con precise finalità narrative) e nel mondo di Sofia fa entrare un'altra delle figure femminili, represse ma non sconfitte, che l'hanno resa famosa, accarezzando la devozione e la trasformazione di una donna-bambina che scelse di essere la moglie del «re».

Vero è che il film, seppure ben centrato, fatto su misura, resta un po' piatto, a tratti un po' moncorde: ma l'autrice, che non ha certo paura di calarsi nel cuore oscuro della celebrità, in quel passaggio della protagonista da ragazzina a bambola e infine (nel momento in cui reclama la sua libertà) a donna coglie un'urgenza universale e assolutamente contemporanea.

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