La regola d'oro: uno smarrimento che ci riguarda
Forse saranno questi tempi strani, di clausura e di incertezza, di primavera promessa ma infine mancata, ma c'è uno smarrimento,, un'estraneità, ne «La regola d'oro», l'opera seconda di Alessandro Lunardelli, che un po' ci riguarda, che riconosciamo intimamente nostri, anche se magari non lo sono. Qualcosa che attraversa, come un disagio, come l'imbarazzo per avercela o non avercela fatta, un film a due voci, che nessuno veramente vuole ascoltare: quella di un soldato italiano in missione tra il Libano e la Siria che, finito per amore di una bella volontaria nelle mani dei terroristi, lo Stato riporta a casa consegnandogli il patentino di eroe, e l'altra, dell'autore televisivo col cuore ballerino e la vita un po' a pezzi che deve scrivere il discorso che il militare dovrà pronunciare in diretta tv. Il film è qui, nel posto in cui deve stare: nel rapporto tra questi due uomini, sul confine, nella sottile linea di demarcazione che separa le ferite del reduce, del sopravvissuto, il suo spaesamento soprattutto interiore, quel senso di colpa che lo divora, la solitudine di chi resta al centro di un infernale girotondo dal «grande vuoto» dell'altro, che sfoglia ritagli in cerca della storia giusta e va in ansia se non trova il carica batterie. Così diversi e così uguali, entrambi insoddisfatti, incompiuti: sfiorati dalla morte e in perenne cerca di un alibi che gli consenta di rendere meno amaro il tradimento verso gli altri e verso se stessi. Lunardelli sa muovere la macchina da presa, si allontana da una dimensione molto italiana da bilocale ammobiliato, lavora bene sulla fotografia, dimostra un bel passo, lasciando che il suo film parli attraverso la paura, la viltà, quel sentirsi continuamente fuori posto: e nel delirio del prime time («porteremo finalmente la lirica in casa degli italiani». «Sì, guarda: non vedono l'ora...») dove va in scena il grande, volgare, circo della tv in cui i tenori si sfidano al televoto e pseudo D'Urso sorridono anche quando non c'è niente da ridere (ma almeno la Tebaldi è ancora «la più bella di tutte»), coglie senza enfasi il tormento del soldato, prima prigioniero dei terroristi e poi delle regole, dei flash, delle attenzioni - nell'insopportabile litania del «come ti senti?» - dei troppi che non può né vuole deludere. Ne esce un film di personaggi, di sguardi, di vuoti a perdere: che sì, specie nell'ultima mezz'ora, sconta qualche problema di sceneggiatura, di corretta messa a fuoco del contorno, ma che d'altra parte due degli interpreti più ispirati del nostro cinema - Simone Liberati e Edoardo Pesce - tengono stretto, impedendogli di farsi del male.