Room, il mondo in una stanza
Prova a chiudere il mondo in una stanza: il cielo è un lucernario, il cane che non hai mai avuto un amico immaginario, l'armadio un posto dove non avere paura. E fuori è fuori: spazio sconfinato, isola che non c'è, terra di nessuno al di là del muro. Perché esiste solo quello che vedi e il resto è fantasia: immagini aliene dentro a una scatola chiamata televisore. Il mito della caverna di Platone incontra <Alice nel Paese delle meraviglie> in <Room>, il traumatico, claustrofobico, e a tratti commovente film dell'irlandese Lenny Abrahamson (<Frank>), che dopo avere vinto il premio del pubblico al Festival di Toronto ha regalato solo pochi giorni fa l'Oscar, come migliore attrice dell'anno, alla sua protagonista, Brie Larson.
Divisa in tre atti non dichiarati, in tre fasi in realtà molto ben distinte, la pellicola sposa il punto di vista di un bambino di 5 anni e la sua percezione <differente> (e deviata) delle cose per celebrare l'indissolubilità del rapporto madre/figlio nella reciproca (e salvifica) dipendenza l'una dall'altro. Jack non conosce nulla del mondo a parte quello che gli racconta sua madre, prigioniera da 7 anni di uno psicopatico che la tiene chiusa in un capanno: il bimbo è nato lì, non è mai uscito, il suo universo sono quelle pareti che delimitano i pochi metri quadrati della sua esistenza. Che sua madre cerca di rendere meno crudele e ordinaria possibile: fino a quando non si presenta una possibilità di fuga...
A suo agio sia negli spazi più angusti che quando il quadro comincia con cautela ad allargarsi - ma sempre molto addosso, in una complicità intima, ai suoi personaggi -, Abrahamson sfrutta con abilità gli input emotivi di un soggetto non banale trasformando il suo piccolo protagonista in un marziano sul suo stesso pianeta, là dove la scoperta del mondo diventa metafora dello choc della nascita mentre la difficoltà di ritornare alla vita della madre la riflessione sulle cicatrici di una libertà che a volte sembra solo un'altra prigione.
Tratto dal romanzo <Stanza, letto, armadio, specchio>, <Room> è un film maturo a cui dà quel qualcosa in più l'interpretazione non solo del piccolo Jacob Tremblay (bambino prodigio) ma soprattutto della 26enne (volto noto della tv Usa ma pressoché sconosciuta in Italia) Brie Larson, che per prepararsi al ruolo della vita ha passato un mese in completo isolamento: trovando in quel suo carcere autoimposto la libertà di essere grande.
Roma, buona la decima: stavolta fa Festa il cinema
Mettiamola così: non era ancora partita la Festa che già un film era saltato. Maschere che si dileguano, nessun avviso e gente in coda: poi dopo un quarto d'ora si scopre che la pellicola non era mai arrivata. Pazienza. Il giorno dopo però va peggio: la maschera ti ferma perché hai la borsa come altri 300 che però passano. Provi a capire cos'è questa novità ma lui ti stronca subito: "Non cominciamo". Ma non cominciamo a fare che? Pero' c'è una buona notizia: ossia che quelle brutte finiscono qui. Al di là di qualche disguido organizzativo, infatti, i film stavolta alla Festa del cinema di Rom sono belli davvero. E da queste parti è un po' una notizia. È buono Truth , inchiesta giornalistica (da storia vera) che si trasforma in film sulla caduta (degli dei?): bello scontro tra media e potere tra ingerenze e manipolazioni con una Blanchett bravissima. Poi occhio a Room, madre e figlio prigionieri in una stanza: la' dove la scoperta del mondo è la metafora dello chic della nascita. Tre atti, per un dramma psicologico che si muove nel mito della caverna di Platone. È il film che ha vinto a Toronto: e si è preso dei begli applausi anche qui. Tra i promossi pure il doc sulla musica indiana di PT Anderson (col chitarrista dei Radiohead) Junun e soprattutto The whispering star , la stella dei sussurri del giapponese Sion Sono: bellissimo fanta vintage dove un'umanita' alla fine vive solo del privilegio dell'attesa e dei ricordi.