Moderno, spiazzante, differente: The square fa a pezzi il presente
E' il film più <differente>, originale, cinico, trasversale, moderno e spiazzante che vedrete quest'anno: se è anche il più bello siete in grado di deciderlo da soli. L'opera d'arte complessa, concettuale e (felicemente) destabilizzante di un regista immarcabile: che tra mostre non mostre, gorilla da salotto ed errori a cui non è possibile rimediare, denuncia l'indifferenza patologica della società moderna, colpita a freddo nel calduccio rassicurante del suo quadrato esistenziale, ipocrita santuario di fiducia e altruismo.
E' una grande, sorprendente e dissacrante, riflessione sulla contemporaneità, <The square>, la tragicommedia crebrale con cui lo svedese Ruben Ostlund, a tre anni da quel capolavoro audace e sinistro che era <Forza maggiore>, ha trionfato all'ultimo Festival di Cannes: una provocazione raffinata, implacabile e sempre lucida che mina le nostre già traballanti certezze, facendo esplodere nei mille pezzi di un puzzle fatalmente incompleto le contraddizioni, imbarazzanti e velenose, del presente.
Come nel suo film precedente è una questione di causa ed effetto anche nella parabola personale del curatore di museo di successo, Christian, a cui un giorno rubano con l'inganno portafoglio e cellulare. Un furto comune, banale, ma che sulla sua vita (e sulle nostre...) avrà conseguenze clamorose.
Attraverso una pungente satira sull'incomprensibile e ostentata vacuità dell'arte contemporanea (davanti a cui ci si sente come Sordi e consorte alla Biennale di Venezia...), Ostlund demolisce, tra senzatetto, quartieri popolari e immondizia, il mito (non solo svedese) del benessere, mettendo invece in evidenza l'incapacità di venire in aiuto gli uni agli altri e, soprattutto, di comprendere la portata delle proprie azioni. E in quel continuo tirare la corda, in quell'inafferabile sguardo antropologico con cui rompe e scombina le pareti di una realtà che non è più capace di fare quadrato, l'autore, tra alti e bassi narrativi squarciati da momenti potentissimi (la cena di gala <disturbata> dall'uomo scimmia vince per distacco il premio per la migliore sequenza della stagione...) racconta molto di noi e della mancanza di responsabilità di una società borghese per lo più individualista, egoista, decadente.
Là dove l'esistenza è performance, installazione pubblica la cui routine è mandata in frantumi da grotteschi imprevisti: sconvolto il quotidiano col paradosso, <The square> cerca ostinatamente un punto di rottura. Consapevole che se l'arte è sopravvalutata, anche l'umanità non scherza.
Forza maggiore, una coppia sotto la valanga del non detto
C’è qualcosa, sotto la neve. Sotto la valanga del non detto (e dell’indicibile), del sottinteso, dell’inespresso: c’è il campo minato su cui poggiano, inconsapevoli, le nostre certezze, il punto di rottura di un rapporto travolto dalle sue stesse inammissibili paure, la crisi della famiglia perfetta (quella, altrove sorridente, degli spot) soffocata dall’impossibilità di ammettere le proprie, odiose, debolezze.
Ti viene addosso quando meno te l’aspetti, «Forza maggiore»: e ti tiene lì, senza darti scampo, come se fossi bloccato alla stazione in un giorno di sciopero dei treni, mentre nel bianco che annulla dell’apnea dei sentimenti disegna le linee invisibili ma implacabili del disagio e del rancore, del dubbio e della colpa. Audace, anche da un punto di vista sociologico e antropologico, sinistro (pur nel suo sarcasmo nordico), claustrofobico e potente, il dramma etico e intimissimo – osannato a Cannes 2014 - dello svedese classe ‘61 Ruben Östlund è una raggelata sinfonia che dal nulla crea situazioni di pura – ingestibile – tensione, un bellissimo film sulla coppia e sulle sue dinamiche più private (che a volte per rivedere il sole devi scavare nella slavina di delusioni e menzogne che ha sepolto le tue sicurezze...), sulle sue fragilità, così come sulla solidità solo apparente e fasulla della famiglia, che smette di esserlo quando invece conta.
Tomas e Ebba vanno in settimana bianca coi figli piccoli sulle Alpi francesi: ma un giorno, mentre sono al ristorante, una valanga sembra travolgerli. E’ il panico: e l’uomo, noncurante di bimbi e consorte, scappa a gambe levate, non prima di avere raccolto guanti e cellulare... Feroce, nelle sue rese dei conti così come in certi assordanti silenzi, «Forza maggiore» è un film denso e spesso, stratificato, oltre che pieno di sorprese, nonché molto ispirato anche da un punto di vista stilistico, tra inquadrature che tagliano le teste dei soggetti della scena e piani sequenza a camera fissa dove il regista (come quando in una vetrata alle spalle dei protagonisti, durante un drammatico confronto, si staglia il riflesso gioioso di una festa di compleanno) accarezza spesso il piacere della dissonanza. C’è molto Haneke (certe gelide inquadrature, il rigore non solo formale nell’analizzare sino a spolparli sentimenti, stati di calma apparente, privazioni), ma tanto fa anche l’ambientazione (inquietante e prevaricatrice sia in interni che in esterni) nel film di Östlund: che suona la sua nota sino quasi a bruciare la corda, affrontando, in un bellissimo finale di grande forza metaforica, le discese ardite del sentimento, dove scendere da un mondo che non ha più controllo a volte significa ritrovarsi.