Final portrait: Giacometti, genio e sregolatezza
Era uno svizzero mai puntuale, che nascondeva i soldi sotto il letto perché non si fidava delle banche (<sai com'è, sono svizzero italiano...>), un uomo schiacciato dal dubbio che non ha mai smesso di non credere in se stesso. Un fumatore accanito e visionario le cui sculture ora vengono battute all'asta per oltre 140 milioni di dollari, un intellettuale disordinato e dal bicchiere facile, innamorato della moglie ma incapace di rinunciare alle amanti. Così come lo dipinge <Final portrait>, ritratto forse definitivo, ma forzatamente e volutamente incompleto, di un artista geniale che era felice solo quando disperato. Alberto Giacometti, per servirvi, tratteggiato con mano ferma da Stanley Tucci che – figlio di un pittore -, si tiene distante dal biopic più tradizionale per cogliere spirito e verità di un grande interprete dell'arte contemporanea in appena 18 giorni.
Quelli in cui Giacometti, nel '64, cercò di fare un ritratto a James Lord, un americano a Parigi: <Ci vorranno un paio d'ore>, gli dice. Ma l'autore non è mai contento: fa, rifà, corregge, ricomincia...
I tempi (senza tempo) della creatività, la condanna del talento, la sincerità del confronto: film materico, <Final portrait> è una riflessione, più interessante che coinvolgente, sull'ispirazione e sul suo mistero. Una pellicola che attraverso un solo dipinto incornicia una personalità complessa: riuscendoci anche grazie alla splendida, mimetica, interpretazione di un formidabile Geoffrey Rush.