C'è tempo: il cacciatore di arcobaleni e Dalcò Olmo in viaggio verso Parma
E' l'incontro tenero tra due orfani, il cacciatore di arcobaleni e il bambino che non ne ha mai visto uno, il grassone che non va mai al cinema e il piccoletto che ama Truffaut: una favola tenera per eroi quotidiani, uomini e bambini soli che non amano la solitudine e invece di essere inutili Superman si accontenterebbero di salire in piedi su un tavolo per sentirsi un po', un giorno o per sempre, Olmo Dalcò. Anzi, Dalcò Olmo. E' pieno di affetto e di dichiarazioni d'amore – oltre che di decine e decine di citazioni cinematografiche (oltre 50 quelle dichiarate...) – il film che Walter Veltroni (il suo primo di finzione dopo 5 documentari) ha girato (anche) a Parma e dintorni: una commedia on the road affamata di speranza (che forse è l'unica - e l'ultima – rivoluzione possibile) e, in questi tempi bui, di luce, che racconta la bellezza dell'incontro guardando a <Il sorpasso> per finire col rendere omaggio ai luoghi e allo spirito di Bernardo Bertolucci. Nell'Italia ancora traumatizzata dal gol annullato a Turone, dove un sindaco fa tornare il sole grazie a <Topolino> e qualcuno, grazie a Dio, si chiede ancora di cosa è fatto il vento, la storia di Stefano, irrisolto studioso di arcobaleni, che scopre di avere un fratello tredicenne: di cui ora deve prendersi cura. Per i due comincia così un viaggio in Italia: a bordo di un vecchio Maggiolino cabrio targato <Pr>... Delicato e ironico percorso di formazione, tragitto sentimentale che Stefano Fresi (finalmente protagonista), Simona Molinari (gran bella sorpresa) e i giovanissimi (e giusti) Giovanni Fuoco e Francesca Zezza nutrono con dolcezza e sensibilità, <C'è tempo> (che ruba il titolo a una canzone di Fossati) si mette in marcia verso la scoperta e l'accettazione di sé. Non tutto è a fuoco: un paio di sequenze sono poco centrate (quella dal giudice, soprattutto, la lite in piazza Duomo) e a tratti il film si fa didascalico, ma Veltroni cavalca l'arcobaleno (metafora forte della ricchezza della diversità) per uscire da un labirinto <politico> ed esistenziale. Perché, oggi come oggi, il sorriso, la complicità e l'accoglienza sono i soli antidoti alla paura.
Smetto quando voglio: laurea ad honorem alla banda dei cervelloni
Di smettere, in realtà, non sembrano averne una gran voglia: lo vedi subito che si divertono troppo per prendere e mollare. Ma pare andrà così: che questo, il terzo atto, sarà anche l'ultimo. Perché lo sanno pure loro: che è un attimo ripetersi e diventare maniera, imitazione di se stessi, formula stanca (per quanto esatta) di un medesimo risultato. Ma di certo va detto che il dream team targato Sibilia di meriti non ne ha pochi: ad esempio, quello di avere creato un brand, un marchio riconoscibile, riportando linfa e vitalità a un cinema medio altrimenti esangue. Sono l'Ocean's de noantri, la banda del buco dei cervelloni: ma se alla fine il bottino della trilogia supererà tranquillamente i 10 milioni di euro, non si può dire che abbiano derubato o truffato nessuno.
Simpatico ma non troppo zuccherato, <Smetto quando voglio-Ad honorem>, riunita la banda per una mission impossible (salvare la Sapienza da un attentato terroristico...), si esalta nella felice commistione di generi (commedia, prison movie, film d'<evasione>) che in un modo o nell'altro aveva già contraddistinto anche gli altri due capitoli della saga: Sibilia conosce la materia, dimostra una non banale professionalità (come nelle scene spettacolari, sempre ben risolte: vedi quell'inizio niente male, subito nel vivo) e supera l'esame anche stavolta. Non c'è lode, anche perché nel tempo un po' di originalità e freschezza (e qualche risata) è stata lasciata per strada: ma il cast ha sempre una gran bella chimica, lo spirito è goliardico ma (tra rimpasti di governo e fondi per la ricerca che non arrivano mai) non consolatorio, l'entusiasmo sincero. Ma Sibilia ha ragione: la sua università è finita. Se vuole fare il salto deve <smettere> adesso.