Avengers: Endgame: finale di partita da uomini e da eroi
<Dobbiamo rifarci una vita>. <Comincia tu>.
C'è qualcosa che ci rappresenta in quel loro essere calpestati, in quell'accanirsi nel cercare una speranza anche dove non sembra esserci. In quell'inizio dolentissimo di chi sa di avere perso (la guerra, i propri amici, il futuro, tutto), in quel mondo orfano che piange i figli come i padri, dove non basta nemmeno più essere (super) eroi. C'è qualcosa di molto umano, di paradossalmente realistico, in <Avengers: Endgame>, che prima che essere un roboante kolossal cinefummettesco è un film sull'elaborazione del lutto, sul senso del sacrificio, sulla consapevolezza del fallimento, sulla caparbietà della rinascita. Un finale di partita dove è in gioco lo stesso sogno (vero Orfeo? Vero dottor Frankenstein?) di sempre: riportare in vita, riportare indietro, chi si ama.
Fantasioso mix di avventura, ironia, lealtà e rimorso, l'ultimo capitolo della saga dei <vendicatori> (il 22° film in 11 anni targato Marvel...) torna indietro nel tempo (incrociando anche sequenze delle pellicole precedenti) per impedire al crudele Thanos di fare piombare la Terra nello sconforto. L'escamotage dello scarto temporale (con tanto di inevitabile incontro/scontro con se stessi) non è nuovo (ma sono loro i primi a riderci su) e anche lo svolgimento è piuttosto basico: eppure il confronto, struggente, con chi è andato avanti e la portata di quello che si può perdere di nuovo (o per sempre) rende quasi pleonastica la grande battaglia finale (la parte più appariscente, ma non più bella del film dei fratelli Russo), tra banali omaggi al girl power e mani tese alla cultura black. Piuttosto, è la volontà di non indossare gli occhiali rosa che permette ad <Avengers: Endgame> di avere la maturità di chiudere un ciclo e permettersi il lusso di iniziarne un altro: non sarà un addio dolce, ma non c'è un nuovo inizio senza una fine.
Lo chiamavano Jeeg Robot: arriva il super perdente cacio e pepe
Siete stanchi dei muscolosi e vitaminizzati Thor e Capitan America? L'Uomo Ragno vi rampa su per una braga e Hulk vi sembra sovrappeso? Beccatevi il supereroe «cacio e pepe». L'ideuzza non è male, anzi: negli anni plasticosi in cui al cinema imperversano (nel bene e nel male) aitanti e problematici eroi dai poteri clamorosi, qui si butta sullo schermo un ultra perdente all'italiana, balordo nostrano che di super non ha neanche la benzina.
Tentativo interessante di realizzare un cinecomics verace, senza peraltro partire da un fumetto esistente, «Lo chiamavano Jeeg Robot» lo ha girato, all'ombra dei palazzacci di Tor Bella Monaca, il debuttante Gabriele Mainetti, che dentro ci ha messo un po' di tutto: i manga, certe facce alla Pazienza, Tarantino, «Kick Ass», «Scott Pilgrim» e le canzoni di Nada e Anna Oxa... Ne viene fuori una favola pulp dai colori accesi e pop, risposta made in Italy e iconoclasta ai lucidatissimi personaggi della Marvel: peccato però che, nonostante la spavalderia, tutto o quasi (specie a livello estetico) sia già visto e rimasticato.
Anche se stavolta il supereroe è un senza Dio cresciuto in periferia, brutte scarpe di camoscio ai piedi e una passione smodata per i film porno e per lo yogurt. Uno come Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria, bravo), insomma: ladruncolo da strapazzo che dopo un bagno imprevisto nel Tevere viene a contatto con delle scorie nucleari che gli donano una forza sovrumana. Abbastanza da dare una svolta alla sua carriera criminale...
Spintissimo sin dalla prima uscita alla Festa del cinema di Roma (dove venne accolto da ovazioni e applausi a scena aperta), sostenuto da una campagna promozionale a tappeto (Santamaria l'altro giorno era persino a Sky Sport, per dire) e favorito da una data di uscita scelta con molta attenzione, «Lo chiamavano Jeeg Robot» (che nel titolo richiama un famoso cartoon giapponese degli anni '70) è un film acido, violento, anche divertente, che strizza l'occhiolino a più non posso allo spettatore, eccedendo però nel grottesco e cercando giustificazioni serie (la ragazza abusata da piccola, le bombe fatte esplodere dalle cosche) a un contesto (specie nella seconda parte, quando la pellicola, partita bene, cala) più sguaiato che irriverente.
Blackhat: il cinema liquido di cyber Mann
E’ un cinema liquido, che non corre né cammina, ma «scivola», quello di Michael Mann: con le sue immagini dense, quelle notti infinite di lancinante bellezza, i blu ghiaccio, i bianchi acciaio, i verdi acido. Un cinema che tiene la testa sott’acqua e la tira fuori solo quando necessario: morbido anche quando violento, imploso, romantico, malinconico, instancabile. Come la macchina da presa, in costante (anche quando impercettibile) movimento, sempre, come quest’epoca virtuale, accesa, connessa.
E così stavolta, cambiata la password al genere, Mann con «Blackhat» viaggia, senza cercare facili scorciatoie, sulle autostrade informatiche, dove i file vanno più veloci dei pensieri, girando un cyber thriller freddo e affascinante, zeppo di codici segreti, di silenzi da decrittare, di sussurri e rimpianti che non hanno un indirizzo e-mail: qualcosa tra il desiderio e il disagio, per qualche bit (e qualche dollaro) in più.
Un hacker che sta scontando 15 anni di galera (Chris Hemsworth di «Thor» e «Rush») viene liberato dall’Fbi affinché dia una mano a loro e al governo cinese a scovare un terrorista informatico che ha appena attaccato una centrale nucleare... Su una scacchiera già nota – ma in un’era totalmente nuova – Mann muove personaggi inverosimili utili però a realizzare un film ipertestuale che rompe con le regole del racconto classico per avvicinarsi (a costo di alienarsi il pubblico più «regolare») a un’esperienza, non solo in senso estetico, digitale. Un duello a distanza che si combatte, prima che in strada, sui server a cui il regista di «Insider» e «Collateral» dona il suo sguardo rotondo, potente, «sentimentale»: aprendo squarci di irresistibile suggestione. Come nella sequenza della prima sparatoria, un’esperienza anche a livello acustico: mentre guardie e ladri si smarriscono negli stretti e curvi cunicoli di un labirinto urbano e i vuoti e i pieni disegnano l’architettura di un’emozione.