Amore, Tempo e Morte: Collateral beauty, il lutto secondo Pirandello, Dickens e Frank Capra
Segue e riannoda, passo dopo passo, caduta dopo caduta, il filo invisibile che collega ogni cosa, il nuovo, dolente, film del regista de <Il diavolo veste Prada>: trovando quasi con stupore, nel domino infinito di una lettera senza destinatario, nell'astrazione di un mondo da sfidare perennemente contromano, una segreta, e intangibile, bellezza collaterale. Come una luce, fioca ma instancabile, quando il buio è più fondo. Là dove comanda e detta le sue regole la santissima trinità dell'esistenza: amore, tempo, morte.
E' una pirandelliana elaborazione del lutto, una resurrezione emotiva che mescola Dickens e Frank Capra con la spiritualità vagamente new age di <Sette anime>, <Collateral beauty>, film terapeutico dell'altrove più lieve David Frankel che ci invita alla grande recita che siamo, costringendoci a uscire dalle quinte del nostro stesso malessere per partecipare alla messinscena di un vivere che per quanto precario non possiamo interpretare ritagliandoci solo un ruolo da marginali comparse.
Un cinema del <ricominciare>, del <ripartire> (o del <rinascere>) che affida la sua indagine introspettiva a una rivisitazione seria della commedia fantastica, con esiti disuguali, affiancando con umana vicinanza il calvario di Howard, un ex pubblicitario di successo che si è smarrito nel tunnel della depressione dopo la morte della figlia di sei anni. Tra i suoi pochi passatempi, quello di scrivere lettere piene d'insulti: al Tempo, all'Amore e alla Morte. Nei cui panni un giorno si calano però tre attori professionisti, ingaggiati dai suoi amici più cari: soci della sua compagnia che, per salvare la baracca e cercare di scuotere Howard, provano una terapia choc.
Meglio nella prima parte, quando gli interpreti scendono dal loro piccolo palco off Broadway per interagire sul set più grande che c'è, quello del mondo <reale>, che non nella seconda dove il protagonista (fino a quel punto quasi in secondo piano) si prende l'intera scena permettendo al film di tuffarsi nel melò più spinto e di dialogare col soprannaturale, <Collateral beauty>, pur contando su un cast in realtà inutilmente esagerato (Will Smith, Edward Norton, Kate Winslet, Helen Mirren, Keira Knightley, Michael Pena, Naomie Harris...: continuo?), fonte più che altro di distrazione, ha un'idea di partenza non malvagia, ma si rivela più pretenzioso che pratico, nel tentativo un po' goffo di affrontare temi fondi e abissi esistenziali con sfilacciati concetti pseudo filosofici.
L'ultimo round: la malinconia di Ali e quell'incontro con Rocky
Ci sono mille modi per ricordare the greatest, il più grande di tutti. Perché dire che Muhammad Ali è solo un pugile (sì, certo: anche il migliore di sempre) sarebbe come affermare che i Beatles erano quattro ragazzini che cantavano canzonette o che Hitchcock era un tizio sovrappeso che girava gialli. Più che davanti a una leggenda dello sport qui siamo davanti a un'icona del XX secolo, forse l'ultimo vero grande mito (giunto all'ultimo, inesorabile, round) del mondo prima di Internet, dello smart phone e della paella vegana. E allora bisogna celebrarlo per bene. Ecco, io un paio di film da suggerirvi ce li avrei.
Un documetario molto bello, ad esempio, che ha già 20 anni ma non li dimostra: "Quando eravamo re". A finirlo, il regista Leon Gast ci ha impiegato 22 anni: prima pensava di farne un film sul concerto che doveva precedere l'incontro del secolo, quell'Ali vs Foreman ribattezzato Rumble in the jungle. Poi ha capito che del concerto non fregava niente a nessuno: e ne ha fatto uno splendido ritratto - politico e carismatico - dell'uomo che sul ring danzava come una farfalla.
Ma soprattutto, quello che ci piace ricordare è l'originale biopic che alla figura (anche culturalmente, oltre che socialmente) mastodontica di Cassius Clay ha dedicato Michael Mann. Uno che, tanto per dire, ha girato film come "Collateral", "Insider", "Heat". "Alì" è uno dei suoi film più sottovalutati: ed è un peccato. Lo osteggiarono da subito, specie perché la parte del protagonista era andata a Will Smith, uno famoso fino a quel puntoper "Men in black" e "Il principe di Bel Air" . In realtà è un bellissimo film, denso e scomodo come tutti quelli di Mann. Che a un personaggio già così raccontato, sviscerato, rimodellato, ha donato una luce diversa: una sorta di indecifrabile malinconia. Fateci caso: per tutto il film, nei trionfi come nelle cadute, nella gioia come nella rabbia, nello sguardo di Will Smith/Ali c'è un riflesso di tristezza. Un senso di rimpianto, una fitta sotto pelle. E' una lettura inedita e potente di chi, a volte, sembrava agli occhi meno attenti solo uno sbruffone, un provocatore.
Che poi vinceva perché - come ha spiegato Nino Benvenuti, uno che ne ha date e ne ha prese - non era solo il più forte: ma, soprattutto, il più intelligente. Abbastanza da essere, quando serviva, anche spiritoso: come alla cerimonia degli Oscar del 1977, quando sul palco salì Sly Stallone, reduce dal successo di "Rocky". Guardate il video per vedere cosa successe...