Recensione, 2025, Festival Filiberto Molossi Recensione, 2025, Festival Filiberto Molossi

Il seme del fico sacro, il sonno dell’Iran genera mostri

Il sonno della ragione genera mostri: anche tra le quattro mura di una (nuova) casa. Dove, seduti assai poco comodamente sul scivoloso divano del dubbio, si rischia di diventare giudici delle proprie «amate» figlie. O della donna che si è sposata. Ma mai, proprio mai, di se stessi.

È il film di un regista in fuga, le cui opere non sono mai state proiettate nel suo Paese, censurato e messo all'indice, un autore, già rinchiuso per sette interminabili mesi nel carcere di Evin (lo stesso di Cecilia Sala), che ha scelto l'esilio, per quanto straziante e ingiusto, per evitare una condanna a 8 anni di reclusione, la fustigazione e la confisca dei beni. Un cineasta simbolo Mohammad Rasoulof, che non si limita a dissentire: ma che dà corpo - e volto - alla paranoia che attacca come una cancrena i tessuti vivi di un Paese, l'Iran, irrimediabilmente orfano: dove le nuove generazioni non possono più riconoscersi in un legame - né di sangue né tanto meno ideologico e morale - con chi le ha precedute. Né, soprattutto, assolvere la complicità di chi (padri padroni e comparse della Storia) fingendo di non avere scelta, preferisce fare parte dell'ingranaggio, piuttosto che - nell'evidenza della sua iniquità - esserne il sabotatore.

Nell’Iran delle manifestazioni studentesche represse nel sangue, un uomo, appena promosso giudice istruttore, scopre che la sua pistola d’ordinanza è sparita: chi può averla presa? I sospetti inevitabilmente cadono sulle figlie e sulla moglie…

Girato in clandestinità e accolto da un commosso applauso senza fine alla prima mondiale al Festival di Cannes dell’anno scorso, dove vinse il premio speciale della giuria, per poi essere candidato all'Oscar per il miglior film internazionale, «Il seme del fico sacro» (l’albero che soffoca e uccide le piante vicine, così come il regime iraniano strangola il suo popolo: ma in una visione più ottimista, anche i germi del movimento di protesta «Donna, vita e libertà» che, crescendo, porteranno - forse - alla morte della dittatura...) non è solo un atto di denuncia della follia del regime teocratico, ma anche un implacabile thriller etico che ha per bersaglio uno Stato destinato a implodere, così come d'altra parte l’istituzione famiglia.

Attraverso un classico espediente del genere (lo smarrimento di un’arma), Rasoulof porta il gioco della verità e della menzogna a un punto di non ritorno: qualche taglio avrebbe giovato, ma la riflessione politica e quella sulla condizione femminile vanno molto oltre il racconto del reale, per cogliere la profondità, mai troppo esplorata, dell'abisso.

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