Recensione, Festival, 2018 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2018 Filiberto Molossi

Summer, la lunga estate del rock sovietico

C'era solo il nome a Cannes su un cartello: lui no, era rimasto a casa. Ai domiciliari, per l'esattezza: accusato di appropriazione indebita. Anche se sono molti a pensare che è  solo una delle tante vittime della vendetta di Putin, lo zar  della nuova Russia. A cui i suoi spettacoli teatrali e i suoi film sono sempre andati di traverso. E allora, il 49enne Kirill Serebrennikov per farsi sentire alza il volume: la sua banda suona il rock, per chi l'ha visto e per chi non c'era. E' la musica ribelle a incendiare lo schermo: con <Summer> che rievoca (e celebra) la scena musicale russa pre Perestroika, quando gruppi come i Kino e gli Zoopark diedero la scossa, nei primi anni '80, a una generazione senza speranza.

Girato in un bellissimo bianco e nero che ricorda quello del film di Corbjin  sui Joy Division,  interrotto solo da qualche inserto a colori di finto documentario, <Summer> è un film giovane, vitale e pieno di energia che si concentra in particolare sull'ideale - ma inevitabile - passaggio di consegne tra il re del blues-rock di Leningrado Mike Naumenko, l'idolo del presente che già sa di essere il passato, e Viktor Tsoi, che da lì a poco diventerà uno dei più influenti pionieri del rock russo. Punk per scelta e per vocazione, <Summer> - solo stasera (lunedì 17) all’Edison - però non si accontenta di seguire la strada del biopic e mescola con creatività le carte, affidandosi alle improvvisate di uno spiazzante e (in)visibile narratore come, soprattutto, a numeri da musical dove disegnare sulle immagini scritte e segni grafici che ricordano (tra split screen e animazioni) il mood dei primi videoclip. E' una cifra che Serebrennikov usa anche in senso ironico (come quando i passeggeri del bus si mettono a cantare <The passenger> di Iggy Pop), una fuga onirica in un periodo dove in Urss si rischiava di essere sbattuti giù da un treno solo perché ti piacevano i Sex Pistols... E' vero, il suo film ha qualche minuto di troppo e meritava maggiore approfondimento delle personalità dei protagonisti (attratti dalla stessa donna), ma oltre al merito di fare riscoprire al di qua del muro il rock sovietico di quel periodo  è metafora chiara di un desiderio, di una voglia di libertà di espressione che c'era allora come adesso.

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Colette: l’eroina è anticonvenzionale, il film per niente

Ci vuole proprio tutta la peggiore predisposizione (e pigrizia) del mondo per raccontare un personaggio anticonformista, ribelle e <iconoclasta> con un film che – per forma e intenzione – ne è l'esatta e specchiata antitesi. Parliamone: ma una come Colette, scrittrice osannata, attrice di music hall, androgina libertina nell'estasi della Belle Époque, avrebbe meritato di più. E di meglio. Invece, si ritrova imprigionata – lei che ha lottato tutta la vita per essere libera – in un biopic pavido, calligrafico, tradizionale, molto, ma molto, vecchio. Un film inamidato e pieno di inutili sottolineature che sfiora solo superficialmente la dimensione  complessa di questa <eroina> anticonvenzionale e proto femminista capace di dare voce a una generazione di giovani donne altrimenti mute. 

Insegue il fantasma dell'emancipazione, ma manca di slancio, di profondità e – soprattutto – di coraggio, il ritratto che di Colette - bella ragazza di campagna che a fine '800, sposato il gaudente Willy (astro letterario che in realtà sfrutta il talento della dotatissima moglie), va alla conquista di Parigi - fa l'inglese Wash Westmoreland: corretta la confezione, partecipate le interpretazioni (a prestare il volto alla scrittrice è Keira Knightley), funzionale trucco e parrucco, ma  la bisessualità della protagonista è da libri Harmony, il ritmo stantio, l'accompagnamento musicale particolarmente inadeguato. Si ragiona ancora una volta (come già in <Big eyes> e in <The wife>) sul talento derubato, messo a servizio dell'uomo che (ingenuamente e troppo a lungo) si ama; c'è il fervore dell'autodeterminazione, la volontà di rompere gli schemi, lo sguardo proiettato verso la modernità. Ma passata un'ora ti chiedi quando inizi il film.

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Tre volti: in viaggio con Panahi sulla strada della libertà

Ripercorre le strade tortuose del suo maestro Kiarostami, tra villaggi dove ci sono <più antenne paraboliche che abitanti> (e neanche un medico...), Jafar Panahi, il dissidente regista iraniano a cui Teheran vieta ancora (vergogna) l'espatrio: portando se stesso all'interno dell'inquadratura per riflettere dapprima sulla verità delle immagini, sulla possibilità di manipolarle (e, in definitiva, sul cinema, compromesso tacito tra imbroglio e realtà) per poi denunciare la condizione femminile in un Paese ostaggio della sua arretratezza anche culturale, dove <studiare non serve> e gli artisti vengono considerati alla stregua di inutili saltimbanchi. Un riuscito, ispirato, docu-fiction politico <Tre volti>, in cui il regista si mette in gioco insieme all'attrice (anche lei nella parte di se stessa) Behnaz Jafari, andando alla ricerca (un po' come in <Dov'è la casa del mio amico>: ma c'è qualcosa anche di <Sotto gli ulivi>) di una ragazza che gli ha inviato il video del suo suicidio. Ma si è davvero uccisa? O è solo una messinscena, un estremo grido d'aiuto? Viaggio nell'Iran più periferico e marginale (che, anacronistico e legato alle tradizioni, colpisce però anche per dignità e gentilezza), ricco anche di spigolature e spunti ironici (come nell'incontro con la vecchina al cimitero che dorme prima nel tempo nella sua fossa o la telefonata del regista con la madre, ansiosa come tutte le mamme del mondo), <Tre volti> (premio per la miglior sceneggiatura – ex aequo con <Lazzaro felice> - a Cannes) è un on the road per buona parte girato (come <Taxi Teheran>) all'interno di un'auto (uno dei pochi luoghi dove il regista, perseguitato dal regime, si sente al sicuro...) in cui il virtuoso e poetico minimalismo di Panahi corre in aiuto - sulle strade accidentate dove il potere non arriva - della libertà di espressione e di scelta.


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I tre giorni di Roma, l'amarcord di Cuaron con vista sull'Oscar

E' un film affettuoso e riconoscente, la storia di due donne (e di un sé bambino) vista con occhi altri, adulti, il commovente amarcord di un autore che in un luminoso, bellissimo, bianco e nero digitale, inverte la freccia del tempo e torna, dopo Hollywood e dopo l'Oscar, a casa. In Messico, nell'appartamento - ricreato identico al suo ricordo piastrella per piastrella - dove Alfonso Cuaron ha trascorso la sua infanzia. Arriva anche a Parma, su grande schermo, seppure solo per tre giorni (lunedì, martedì e mercoledì al D'Azeglio), <Roma>, il Leone d'oro di Venezia, la magnifica epopea intimista con cui il grande regista di <Gravity> dice grazie alle donne della sua vita: la tata che lo ha cresciuto e la madre. Divise dai ruoli e dalle classi sociali: ma improvvisamente unite nella stessa solitudine, nel medesimo smarrimento.

Un film struggente, pieno di sentimento, di un'amarezza che però non sovrasta la speranza (di un altro inizio, di un'altra vita), quello di Cuaron: la storia minima ma complessa – all'alba degli anni '70 - della sua famiglia (il padre, un medico, molla moglie e quattro figli e scappa con un'altra donna) all'incrocio con quella, drammatica (i paramilitari che massacrano i manifestanti del movimento studentesco...), del suo Paese. Un affresco intimista, al femminile, dove Cuaron si fa in 4 (regista, sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore...) per tracciare, privilegiando piani sequenza emotivi, un suo personalissimo ricordo dove il processo della memoria aiuta anche a comprendere meglio il presente.

Visivamente meraviglioso sin dalla sequenza dei titoli di testa (con quello straccio che si posa instancabile sul pavimento a quadri), <Roma> (niente a che vedere con la nostra capitale: è il nome del quartiere in cui l'autore abitava a Città del Messico) – dato già tra i grandi favoriti dell'Oscar 2019 – ha molte cose bellissime e crudeli (la scena del parto, quella del bagno nell'oceano...), fino al confronto, commosso, tra la bambinaia (strepitosa l'interpretazione di Yalitza Aparicio, maestra di scuola che non aveva mai recitato prima) e la madre di famiglia, entrambe abbandonate dagli uomini che amavano, eppure capaci di essere più forti del destino.

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Troppa grazia: il vero miracolo siamo noi

E' un film dedicato a chi <cerca di fare sempre il meglio che può>, <Troppa grazia>; ma è anche un film su un'epoca che nasce debole, costretta a volte per sopravvivere a tradire i propri ideali. Eppure ancora piena di uomini e donne capaci di <redimersi>, e di resistere a ogni tentazione: anche a quella, paradossalmente, di essere <felici>. Anzi, di più: di essere come tutti gli altri. In un mondo dove <il silenzio paga>, e in cui nessuno <ha più tempo per credere>, Gianni Zanasi gira con pathos etico molto più che religioso un film originale, differente, coraggioso, che cammina sulle uova senza romperne nessuna, trovando conforto anche nell'attraversare il tunnel dell'orrore, dove i rischi e i pericoli si affrontano col sorriso sulle labbra.

La storia di Lucia, geometra precaria con figlia a carico, chiamata a fare un rilevamento su un terreno in piena campagna, dove dovrebbe sorgere un grande centro immobiliare. Ma qualcosa non quadra: forse però è meglio fare finta di niente. Lucia ci prova, ma un giorno, in quel campo, le appare la  Madonna...

Qualcosa di più di una favola ambientalista, <Troppa grazia>: piuttosto, un ragionamento su se stessi, sulla meraviglia, sulla bellezza (e sulla grazia, mai troppa) di cui riappropriarci e, successivamente, tramandare. Per aprire la strada - in quella dimensione surreale e ironica, in quel misticismo gentile ma pragmatico (la Madonna all'occorrenza mena pure le mani...) -, a un dubbio che si fa fessura, poi porta, infine possibilità.  Un percorso intimo e insieme politico che Zanasi segue facendo deragliare volutamente il suo film  dai binari dell'ordinario affrancandosi – come la sua protagonista (Alba Rohrwacher, bravissima:  addirittura chapliniana nella gestione del corpo) - da quello che è già stato stabilito, da ciò che altri, sempre altri, hanno già deciso. Perché alla fine l'unico miracolo – forse – siamo proprio noi.

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