2024, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2024, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Past Lives, quell'amore appeso a un bacio mai dato

Non mi veniva la parola: poi l'ho trovata, in fondo a un cassetto che non aprivo da tempo. Questo film è languido, ma in modo tenero, suadente, «intrecciato». C’è qualcosa di estremamente elegante e definitivo nella maniera in cui la «spatriata» Celine Song, 35enne commediografa emigrata dalla Corea del Sud in Canada e ora prestata al cinema, riordina, nella sua toccante e struggente opera prima, i frammenti di un discorso amoroso perennemente interrotto, una timidezza sussurrata che nasconde una cura, un’attenzione, un’«educazione» non comuni, in quell’attraversare le vite passate che ci portiamo in questa: un romanticismo sincero e non commerciale, con cui segue le vicende di Nora e del suo amico d’infanzia Hae Sung che lascia, quando ancora sono poco più che bambini, per volare a New York, dall’altra parte della Luna. Passano 12 anni e a lui viene voglia di ritrovarla: ma ne dovranno passare altri 12 perché riescano finalmente a rivedersi. E a capire cosa rimane di loro.

Appeso a un bacio mai dato, là dove - in the mood for love - smarrito in una connessione debole, tra albe e tramonti che si specchiano e si confondono, perso nel fuso orario, un amore mai davvero cominciato né finito, sopravvive al tempo, «Past Lives» (due meritatissime candidature all'Oscar: quella per il miglior film dell'anno e un'altra per la sceneggiatura originale) dà un senso e un nome («in-yun», in coreano) a un legame invisibile e indefinibile, a quell'eterno riconoscersi (e rincorrersi) nell'impacciata nostalgia di qualcosa che non è mai accaduto. Salita sulla giostra del destino, la deb Song gira un film per dire addio non tanto all’altro ma a se stessa, riflettendo sulla persistenza del sentimento e sulla sua idealizzazione, interrogandosi con sublime delicatezza sul significato delle radici e sul dovere delle scelte (per quanto, in un modo o nell'altro, dolorose).

Regalandoci così un bellissimo melò che ci riguarda anche quando pensiamo non lo faccia: invitandoci a sedere al tavolino di un bar dove due persone e una terza con loro cercano di rendere meno ingombranti i silenzi, meno impervia la traduzione sempre complessa di un sentimento che non può avere solo una faccia. Nella convinzione che non si è mai troppo distanti per raggiungersi. O per rimpiangersi.

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How to have sex, la prima volta di Molly

Il bagno a mezzanotte, le siga, porzioni extralarge di patatine, lo smartphone sempre in mano, le risate, le docce ed eventualmente le lacrime: mentre la musica batte in testa nelle notti al neon virate al blu e i corpi si sfiorano, là sulla pelle liscia e acerba del mondo, dove la gioventù suda e il desiderio urla.

C'è una sincerità che non accetta compromessi, che non scende a patti, nell'opera prima, liquida e non rassicurante, della trentenne londinese Molly Manning Walker che tratta con maturità il tema della prima volta e quello, ancora più scomodo, del consenso. Lo fa con un film fisico e plastico (alla Korine), che ti schiaffa in faccia, tra uno shottino e l'altro, la complessità incosciente dei sedici anni, nell'after hour senza sosta di chi cerca di diventare grande.

Montato molto bene, senza tregua, con la camera a mano che diventa la quarta amica - quella immaginaria ma anche la più onesta - delle tre protagoniste, sbarcate in Grecia per le vacanze, «How to have sex» (vincitore a Cannes di «Un certain regard») accarezza, con solidale sensibilità femminile, imbarazzi, voglie, segreti, delusioni, trovando facce, tatuaggi e interpreti giuste: senza usare creme protettive nell'abbandonarsi a un sole che, oltre a brillare, inevitabilmente, scotta. Quando non brucia.

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L'odissea dei profughi al confine dell'umanità

«Nessuno ha fatto niente».

Alla frontiera dell'umanità, sul confine esausto che separa il male dal male, una regista di 74 anni, Agnieszka Holland, recita l'epitaffio della società «civile» senza però arrendersi all'indifferenza, senza darla per persa, senza nascondere la testa sotto la sabbia. Ma tentando, con ostinazione, di trovare ancora, nonostante tutto, nonostante il mondo, bagliori di solidarietà dove l'anima è più buia, fuochi non fatui e tracce visibili di coscienza, di partecipazione.

E' un film rigoroso e dolente, crudo e molto duro, vincitore tra le altre cose del Premio speciale della giuria all'ultima Mostra del cinema di Venezia, «Green border», che morde l'attualità fino a farla sanguinare nel porre questioni urgenti, importanti e a volte insolvibili per raccontare (come anche, in forma di documentario, il «Mur» di Kasia Smutniak) l'odissea quasi sempre senza lieto fine dei profughi, il loro dramma devastante e inascoltato, un incubo che diventa in alcuni casi anche il nostro.

Per farlo la regista di Varsavia piazza la cinepresa sul confine tra la Bielorussia del dittatore Lukashenko, zerbino di Putin, e la Polonia in mano all'estrema destra: che respinge brutalmente chiunque chieda asilo e rifugio...

In un bianco e nero senza scuse, un cinema privo di passaporto che sa ancora sporcarsi le mani. E dà voce a tutti: chi scappa dalla guerra o dalla fame, le guardie di frontiera prive di pietà, gli attivisti. E chi, semplicemente, decide che non può più restare con le mani in mano.

Un atto d'accusa, «Green border», che non ammette repliche e, tra propaganda e sofferenza, guarda negli occhi il fallimento della politica Ue dell'accoglienza, ribadendo d'altro canto la necessità di mettersi in gioco. Che vale per tutti, artisti compresi: come dimostra questo film indignato, che assiste non inerme alle sfide del suo tempo.

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Te l'avevo detto: la Roma sudata, grottesca e a perdere di Ginevra Elkann

«Perché non riesci a essere normale?».

In una Roma a cui manca l'aria, assolatissima e sudata, tossica come le relazioni che la consumano, un film bulimico e impietoso, grottesco e corale: giostra (dis)umana popolata da personaggi schiavi delle loro dipendenze, schiacciati dalle proprie debolezze, irrisi da un torrido presente di metaforica e polverosa canicola. Ognuno alle prese col suo vuoto (a perdere), la solitudine, il disagio, gli «eroi», eccentrici e dolenti, persi e feriti, dimenticati e paranoici, di Ginevra Elkann: che, al secondo film, senza abbandonare il tema forte della disfunzionalità parentale (madri e figlie, fratelli e sorelle, mogli e - ex - mariti) mira stavolta, dopo l'esordio garbato e semiautobiografico di «Magari», all'affresco, pungente e amaro, di una società decadente e decaduta a cui anche il riscaldamento globale sembra voglia fare scontare i suoi peccati.

Immerso in una fotografia caldissima e coinvolgente, tutta virata all'ocra, «Te l'avevo detto» punta al ritratto d'insieme ma pur trovando nelle sue short stories una personale tenerezza fatica a renderci partecipi, pagando in modo pesante l'approdo sugli schermi dopo «Siccità» di Virzì, a cui è per molti versi assimilabile.

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Prima danza poi pensa: Beckett allo specchio

Mr. Beckett, I suppose. Ma anche, inevitabilmente, dottor Samuel. Un'anima divisa in due, scissa sul ciglio di un interrogativo, finché, là nell'aria, nel cielo terso, vola l'aquilone. Un uomo, prima e oltre il genio, pronto ad affrontare «un viaggio nella sua vergogna»: in dialogo con se stesso, nella fuga da un Nobel che in realtà non ritirò, pur non sottraendosi alle foto di rito...

Un'idea beckettiana per un film che lo è solo in parte, quella che accende il motore di «Prima danza, poi pensa» (titolo splendido, dalla risposta del commediografo a uno studente che gli chiedeva della vita), che mette un grande scrittore che non era fatto per la vittoria davanti allo specchio del suo senso di colpa. Quasi una seduta di autoanalisi, là dove, aspettando Beckett, arriva invece una pellicola che lo racconta, quando - forse - avrebbe dovuto «rappresentarlo».

Ma se la costruzione cronologica in capitoli - cinque: Madre, Lucia, Alfy, Suzanne (e Barbara) e La fine, tutti legati a personaggi che, in un modo o nell'altro, contarono moltissimo nella formazione e nella sopravvivenza del formidabile intellettuale irlandese - alimenta una convenzionalità che poco si addice al protagonista, è indubbio che il film dello specialista in biopic James Marsh (lo stesso della «Teoria del tutto», anche se il suo apice continuo a credere sia «Man on wire») riesca a cogliere, in quelle spalle perennemente ricurve, la personalità complessa dell'alfiere del teatro dell'assurdo, quel vuoto amarissimo difficile da riempire, la vergogna e la vanità del successo, la gioia, sempre sommessa e indecifrabile.

Il padre che sul letto di morte gli diede un buon consiglio («combatti»), l'ammirazione sconfinata per Joyce («preferisco il suo fallimento al successo di chiunque altro»), la moglie indispensabile e tradita: interessante e colto, il film (a cui lo sdoppiato Gabriel Byrne dà il giusto smarrimento) procede senza disturbare per ellissi, mostra, rivela, domanda. Ma alla fine, come al solito, ha ragione Joyce: «Npn è quello che scriviamo, ma come scriviamo». Prima, danza.

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