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Ritrovarsi a Tokyo, la parte mancante

La mia recensione di “Ritrovarsi a Tokyo”

Comincia dentro a uno specchietto retrovisore, con la vita (e tutto il resto) che non smette di scorrere alle spalle del protagonista, questo film: e non potrebbe essere altrimenti, là dove, nella notte metallica e «altra», conta sempre più quello che hai lasciato indietro piuttosto che la strada che ti ritrovi davanti. Come se quella parte mancante (non a caso il titolo originale...) fosse il segreto rimosso del tutto: il pezzo che risolve il puzzle, l'ingranaggio emotivo che rimette in carica il cuore. Ci sono perfect days che non sono perfetti per niente in «Ritrovarsi a Tokyo» di Guillaume Senez, dove l'insopprimibile necessità di essere e restare padre occupa lo spazio bianco di un'umanità sospesa, per sempre straniera, in patria o no, lost in translation nel girotondo di domande inascoltate e di cavilli incomprensibili, quando anche la lingua che credevi di avere imparato sembra essere,, in un attimo, dimenticata.

Come per Jay, ex chef francese, che guida un taxi e colleziona in camere-santuari lacrime e ricordi. Non vede la figlia da 9 anni, da quando la moglie giapponese, che ha la legge, per quanto ingiusta, dalla sua, ha fatto le valigie ed è tornata a Tokyo: non ha mai smesso di cercare la ragazzina, ma ormai è sul punto di arrendersi. Poi, una mattina...

Affondata la rabbia e il senso di colpa in una logorante strategia della pazienza, decisamente più zen che occidentale, il film stretto, intimo, anche tenero (pur nella disperazione) di Senez cerca di riannodare, nel dolore amplificato della separazione, il legame, fragile e insieme fortissimo, che tiene se non fisicamente idealmente uniti un padre con la propria figlia, confermando quanto la paternità ritrovata sia uno dei temi più frequentati del cinema degli ultimi tempi.

Forse anche per questo la pellicola, che trova nel sempre bravissimo Romain DurisTutti i battiti del mio cuore», «L'appartamento spagnolo») un fascio di nervi di empatica intensità, assomiglia a tante altre cose già viste e pecca a tratti di didascalismo. Ma, tra denuncia e struggimento, sul possibile sentimentalismo prevale alla fine il senso di spaesamento, l'approccio umanista e la determinazione ferita di chi va incontro al suo destino sperando che un selfie sia per sempre.

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In viaggio con mio figlio, l’avventura di essere un padre speciale

Uno è un comico che non fa troppo ridere, vive ancora con il padre e dopo avere fatto l'amore piange sempre; l'altro è un bimbo autistico che vuole solo essere visto, odia le banane e urla come un pazzo se cerchi di abbracciarlo: sono la coppia in fuga (nemmeno loro sanno davvero da cosa) di un on the road padre/figlio con vaghe risonanze di «Rain Man», ma in realtà molto più simile (e affine) a «Tutto il mio folle amore» di Gabriele Salvatores.

Ha sensibilità non posticcia e un taglio di inquadratura con qualche (seppure misurata) velleità, «In viaggio con mio figlio» (che sconta un titolo italiano che più banale non si può), il film con il quale l'attore e regista Tony Goldwin (era il cattivo di «Ghost», da cui qui recupera, in un piccolo ruolo, Whoopi Goldberg) offre, con sguardo non consolatorio sulla malattia, uno spaccato sincero e anche toccante di quanto sia complesso, faticoso, frustrante (e a volte, improvvisamente, meraviglioso...) essere genitori di un ragazzino «fuori dalla norma».

Uno come Ezra, che magari sta chiuso a riccio nel suo mondo perché non ha mai avuto una buona occasione per stare nel nostro: e cerca di capire se davvero ne vale la pena viaggiando verso Los Angeles con il padre Max, che lo ha rapito per non farlo finire in un istituto per «ragazzi speciali».

Scritto da uno sceneggiatore (Tony Spiridakis, qui anche produttore) che ha davvero un figlio autistico e che per redigere il copione ha attinto alla sua vera storia, e interpretato dal deb William A. Fitzgerald, piccolo attore neuro divergente, «In viaggio con mio figlio» è un film che oltre a spiegare cerca di capire: uno sforzo che, nonostante l'impianto narrativo sia già molto visto e le dinamiche interpersonali usurate, è da premiare. Così come la bella faccia da cinema di Bobby Cannavale (che qui tiene testa anche a un mostro sacro come De Niro), uno che quando appare sullo schermo capisci che lo vorresti vedere più spesso.

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La trama fenicia: il miliardario, la suora e il disastro del capitalismo

C'è un tizio ricchissimo che ha 10 figli, 9 maschi e una femmina che vuole farsi suora e fuma la pipa, è sopravvissuto a 6 incidenti aerei e nonostante tentino invano di avvelenarlo con il brezel non perde il fiuto negli affari che ne fanno «mister 5%». Già così vi ho dato un bell'indizio: ma se vi dico che il set assomiglia a un (bellissimo) libro illustrato e che sono della partita anche una spia che ama gli insetti e gli inquilini dell'aldilà (rigorosamente in bianco e nero) è abbastanza palese che ci troviamo nell'ennesimo, stravagante e delizioso, film di Wes Anderson, «La trama fenicia». Vero che il regista americano (di recente in concorso nell’amato Festival di Cannes, nel quale è sempre ospite gradito) ripete ormai sempre all'infinito il suo schema e che il suo cinema bizzarro e analogico sembra quasi autocitarsi: ma l'ironia è centrata, lo stile immediatamente riconoscibile e rassicurante, il gioco sempre godibile. E qui, oltretutto, il cantore delle famiglie più disfunzionali lascia che la satira si fonda con la denuncia politica, mentre, in fila al funerale del capitalismo, il potere riflette sull’eredità che lascia ai suoi figli: denaro e polvere, avidità e disastro. Go Wes, quindi: ma se il colpo riesce ancora è merito anche dei complici. La banda Anderson, per l’esattezza che conta gene come Benicio Del Toro, Bill Murray, Scarlett Joahnsson, Benedict Cumberbacht. E trova anche una faccia nuova: quella di Mia Threapleton, la 25enne figlia della ragazza con cui avreste voluto ballare sul Titanic. Sì, lei è Kate Winslet: e noi non siamo più dei poppanti.

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Mission: Impossible, countdown finale

«The end is coming».

O forse no: che sia la fine, come si dice, della saga (vero che Tom Cruise ha compiuto 62 anni, ma ce lo vedete Ethan Hunt in prepensionamento?) oppure invece solo un modo per trasformarla in qualcosa d'altro, il brand «Mission: Impossible», fortunatissimo e dall'impatto globale, non smette di funzionare, mettendo sul piatto un mix sempre avvincente di azione, spy story, hi-tech, ironia e gioco di squadra.

In ballo c'è - of course - la sopravvivenza del genere umano, solo che stavolta il nemico non è il solito pazzo scriteriato o il villain del Bond di turno. Ma un'entità: una sorta di anti Dio in cui non è difficile riconoscere una nefasta evoluzione dell'Intelligenza Artificiale. Una mente malvagia e immateriale che punta alla catastrofe nucleare: che solo Ethan e la sua squadra di fedelissimi può tentare di scongiurare.

Chiaramente ne vedremo di tutti i colori: forte di una sospensione dell'incredulità che dura quasi tre ore e di un montaggio cinetico che non permette di annoiarsi (anche se nella sequenza del sommergibile il regista McQuarrie non avrebbe fatto male ad usare l'arma segreta: le forbici), «Mission: Impossible-The Final Reckoning», partito con un omaggio al franchise che vale un po' anche da recap, si conferma una baracconata divertente, un blockbuster giramondo (da Londra all'Austria, dal Mare di Bering al Sudafrica) capace di giocare, trovandosi a suo agio, in qualunque elemento - cielo, terra e acqua (e ovviamente fuoco: a volontà) - con una serie di colpi di scena e imprevisti che si susseguono a ciclo continuo.

Tutto è molto «ultra», ma non mancano i messaggi - nemmeno troppo sottotraccia - alla complessità del presente: dall'incubo nucleare tornato prepotentemente d'attualità agli echi di guerra fredda (anzi gelida, visto che l'incontro è all'Artico) tra americani e russi, fino ai pericoli - sottostimati - dell'IA. Ma certo se il presidente Usa, come in questo caso, è donna e non Trump è già un bel passo avanti.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Le pagelle dei film del Festival di Cannes

Un simple accident 8

Un uomo riconosce il suo torturatore: lo segue e lo rapisce. E adesso? Ma poi, è proprio lui? Un grande film sull'inutilità della vendetta che Panahi, inviso al regime, ha girato in clandestinità. Una Palma attesa e meritata per il resistente cineasta iraniano, che dopo Venezia e Berlino ha vinto anche a Cannes

Sound of falling 8

Una delle sorprese dell'edizione di quest'anno. L'affascinante e polifonico film della tedesca Mascha Schilinski riannoda le voci e la prospettiva di quattro ragazze di differenti generazioni e periodi storici, unite apparentemente solo dall'avere abitato nella stessa casa. Potente e suggestivo

Sentimental value 7,5

Ambientato in una vecchia casa che sembra trattenere i respiri di tutti quelli che ci hanno abitato, un confronto padre/figlie che porta Trier in zona Bergman. Un cinema nel cinema mai fine a se stesso: una resa dei conti con interpreti strepitosi.

The secret agent 7,5

Dal Brasile un thriller politico che parte da lontano e poi lancia un ponte al presente: girato con stile caldo - colori accesi, molto saturi -, bellissimo per quanto riguarda decor e coté citazionista, è un film che depista lo spettatore in un Paese sempre in maschera.

Dossier 137 7,5

Un film civile che rilegge un un fatto di cronaca, ferita ancora aperta della repubblica francese: Dominik Moll ci riporta al dicembre del 2018, nei giorni della guerriglia a Parigi tra forze dell'ordine e gilet gialli. Un ragazzo viene ferito dai poliziotti: una collega indaga su di loro.

Nouvelle Vague 7-

Un omaggio ultra cinefilo al genio di Jean Luc Godard e ala nascita di un capolavoro, «Fino all'ultimo respiro»: il molto atteso «Nouvelle Vague» di Linklater piacerà più agli appassionati che al grande pubblico. In bianco e nero e in 4/3, ha una regia raffinata, ma resta soprattutto un (intelligente) divertissment.

Sirat 7+

A ritmo di techno pesa, alla ricerca di una figlia perduta, in un'ambientazione quasi alla «Mad Max», preludio di un mondo, sul baratro della terza guerra mondiale, che sta per finire: Uno dei film più originali dell’intero mazzo, con un twist da brividi. Questo Olivier Laxe è da tenere d’occhio.

Le petit dernière 7

Un racconto delle cinque stagioni (primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera) che sboccia in un dilemma interiore: quello di Fatima, in bilico tra fede ed emancipazione. Un coming of age dove l’attrice di “Cous cous” , qui regista, lancia la stella di Nadia Melliti, grande rivelazione del Festival

La trama fenicia 7

L'ironia è centrata, lo stile immediatamente riconoscibile, il gioco sempre godibile: Wes Anderson fa nuovamente centro con un rapporto padre/figlia portato sino al paradosso sgretolando quel che resta del capitalismo. Ancora una volta la forma è il contenuto.

Jeunes mères 7+

Cinque ragazzine-madri in una vera casa famiglia. Il nuovo film, crudo ma per una volta pieno di speranza, dei due registi belgi: che, nell'epoca dei salari minimi, si schierano nuovamente dalla parte dei più deboli e degli oppressi, vestendo di compassione il loro realismo sociale.













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