Good kill: la guerra al tempo dei droni del soldato Hawke
Ed Ethan prese il joystick: la guerra «pulita» del soldato Hawke. Che uccide terroristi talebani (e malauguratamente anche civili innocenti...) da undicimila chilometri di distanza, comodamente seduto in un ufficio-container dotato di aria condizionata dove gli attacchi sono virtuali, ma il sangue e l’orrore - dentro quegli schermi tutti uguali - maledettamente veri.
E’ la fredda guerra 2.0 raccontata da «Good kill» di Andrew Niccol («Gattaca»), un film che, ispirato a storie realmente accadute, testimonia la caccia ai terroristi scatenata dagli americani con i droni, aerei comandati a distanza da militari che, dopo 12 ore con gli occhi fissi ai monitor a lanciare missili e seminare distruzione, passano a prendere i figli a scuola.
«Cosa mi manca? La paura: la cosa più terribile che mi possa capitare è rovesciarmi addosso il caffè». Parola del maggiore Tommy Egan (Hawke, appunto), pilota senza ali sul punto di rottura: esegue ordini di morte senza correre alcun rischio, ma una volta a casa è costretto a fare i conti con i danni collaterali che incendiano la sua coscienza. Lasciato in congelatore per un anno e mezzo (era passato, senza scossoni, in concorso a Venezia 2014), «Good kill» viene sganciato in sala con discreto tempismo, proprio mentre infuriano le polemiche per i droni Usa nella base di Sigonella. Interessante e problematico (nonostante un brutto finale) nel cogliere la schizofrenia di una guerra a distanza che rischia di trasformare tutti in macchine, parte non pensante della propaganda di un Paese dalle villette troppo uguali e col prato ben rasato, il film di Niccol è sin troppo schematico, un po’ tagliato grosso: ma ha il merito di fare luce sull’implacabile routine e sulla solitudine degli dei di una guerra comunque, anche stavolta, assurda.