Rosso Istanbul, chi guarda il passato non vede il presente
<Il libro, i miei film...: è tutto un bluff>.
<Giallo> Istanbul: nel viaggio di ritorno di chi si smarrisce tra le righe di un testo inevitabilmente doppio, Ferzan Ozpetek va in cerca del fantasma dell'autore e ne culla l'assenza osservandone i resti e le nature morte in un percorso a ritroso privato e introspettivo che sfocia nell'autoanalisi, mentre, tra una riva e l'altra del Bosforo, riemergono lungo la strada verso casa (e verso sé) sentimenti negati o solamente sopiti. Parole e tracce di chi codifica il ricordo, costretto a risolvere il rebus che siamo. E' un film di una bellezza triste (come la città che accoglie e da cui è accolto), tormentato e vissuto sulla propria pelle, anche se alla fine pensato e girato più per sé che per gli altri, <Rosso Istanbul>: la storia di un risveglio esistenziale, di un riavvolgere che è insieme un divenire, nel (non) luogo dell'anima dove <realtà> e fantasia non smettono di confondersi, tra gli spettri di ciò che è stato e la promessa, eccitante, di nuove sfide. Uno scrittore turco ormai rimasto senza parole, Orhan, torna in patria dopo 20 anni di esilio volontario per curare l'edizione del primo libro, fortemente autobiografico, di un famoso regista che conosce da sempre: ma appena arrivato, il cineasta scompare senza lasciare traccia. Cosa gli è successo? Nel cercare di comprendere il mistero dell'amico, Orhan si imbatterà nel suo se stesso dimenticato...
Stretto sui volti, doloroso ma comprensivo delle proprie e altrui debolezze, <Rosso Istanbul>, che Ozpetek ha tratto dal suo omonimo (e autobiografico) romanzo, rivoluzionandolo nell'intreccio, è un film più pulito, intimo e personale rispetto alle ultime fatiche del turco d'Italia, che realizza sì una pellicola sofisticata, ma un po' troppo letteraria (nel senso negativo del termine) e sentenziosa (infarcito com'è di frasi fatte che sembrano prese pari pari dalla pagina scritta e che mal si sposano con la dinamicità fluida del cinema), melò misurato e sentito, ma algido che, appiattito dal doppiaggio, ha il limite di peccare di scarsa empatia.
Sincero nel suo mescolare piani e prospettive, riconoscendosi (o sostituendosi) ai personaggi, il regista de <Le fate ignoranti> e <Saturno contro> resta così a volte prigioniero di un approccio pretenzioso e intellettualistico nel nostos imperfetto di chi sa che <chi guarda il passato non vede il presente>.