Tornare a vincere: Affleck non va a canestro
È come un giocatore che non ha i mezzi (o le palle) per tirare da 3 e allora cerca un canestro facile, o al massimo i liberi, ma finisce per commettere fallo in attacco. «Tornare a vincere», che sul parquet del campo da basket gioca i suoi minuti migliori, è un po' così. Gli manca la stoffa, ma un po' anche la sofferenza del campione: e non basta il trauma che anticipa la catarsi per liberarsi dalla marcatura dell'avversario più scomodo, la convenzione. Che chiedi a tutti di avere il dente avvelenato, ma poi quello che lo mostra meno alla fine sei proprio tu. Sport movie molto tradizionale e un po' televisivo che sfocia in modo monocorde nel dramma esistenziale, «Tornare a vincere» è figlio di un cinema del riscatto non privo di note struggenti, ma che pecca di un andamento prevedibile: la storia di Jack, grande promessa della pallacanestro al liceo, ora reduce della vita, loser malinconico e alcolizzato che si divide tra giorni tutti uguali. Un relitto in mare aperto a cui il prete che dirige la sua vecchia scuola offre una seconda possibilità: allenare la disastrosa squadra che da studente aveva portato al trionfo. Gavin O'Connor gioca in casa, lui che col dramma sportivo ha grande confidenza (da «Miracle» a «Warrior»), ricuce con ago e filo i legami familiari (che è tema forte di tutto il suo cinema), ritrova persino (in un ruolo che ha qualcosa di autobiografico) anche l'appesantito Ben Affleck con cui aveva girato «The Accountant»: ma il muoversi nella sua comfort zone paradossalmente limita più che favorire il regista newyorchese che guarda a «Basta vincere» e «Colpo vincente» non riuscendo a dare il necessario nerbo e carattere ai suoi personaggi. Poi certo, ci sono le partite, l'agonismo, la ricaduta e la rinascita: e il rispetto per il gioco, che è anche rispetto per la vita e per se stessi. Cose che funzionano di un film dove la radice del dolore (perché c'è sempre un dolore) spinge invece su un sentimentalismo un po' di maniera che riporta O' Connor e la sua banda in panchina: senza dargli nemmeno la possibilità di un tiro a fil di sirena.