Il male non esiste: l'uomo e l'enigma della natura
E' come un incantamento. Una specie di strano sortilegio. Una suggestione antica e potente. Non vale per tutti, certo: ma c'è qualcosa di ipnotico in questo film. Qualcosa che non si può spiegare a parole, là dove la cruda praticità del verbo deve forzatamente lasciare spazio al simbolo, al segno.
E' un film poetico e minimalista «Il male non esiste», il «De rerum natura» del giapponese Hamaguchi (già premio Oscar per il bellissimo «Drive my car») che stabilisce un'originale e imprevista connessione con l'ambiente girando con grande delicatezza un film anche emotivamente «sostenibile», nel confronto attualissimo tra logica degli affari e senso di comunità.
Intrigante sin dalla sequenza di apertura con la cinepresa rivolta verso l'alto, magica e rarefatta in quegli interminabili carrelli, la pellicola di Hamaguchi, Gran Premio della giuria all'ultima mostra del cinema di Venezia (dove ha conteso fino all'ultimo il Leone d'oro a «Povere crerature!» di Lanthimos) ci conduce in un villaggio rurale su cui grava la minaccia della costruzione di un «glamping», un camping glam e di lusso la cui costruzione potrebbe avere ripercussioni pesantissime sull'equilibrio del luogo. Gli abitanti, che vivono in armonia con la natura, sono fermamente contrari al progetto: così l'impresa che ha l'incarico dei lavori invia sul posto due suoi funzionari…
Condotto per mano dalla musica enigmatica di Eiko Ishibashi, che gioca un ruolo assai importante nel non scontato potere di fascinazione del film (il cui script trova ispirazione e senso proprio da quelle note), «Il male non esiste» va alla riscoperta delle cose che contano in un modo dove il comportamento responsabile è qualcosa che si è completamente smarrito: e l'uomo, che si perde in un bicchiere d'acqua (anzi, in una zuppa di udon), è costretto - così come lo spettatore (sorpreso da un finale aperto a molteplici interpretazioni) ad abdicare davanti a misteri più grandi di lui.