Adorabile nemica: la misantropa Shirley detta il suo necrologio
<Non si scusi mai per avere detto quello che pensa>.
Lei è una così: una che preferisce una giornata significativa a una semplicemente (e banalmente) <buona>. Una donna (e che donna) abituata ad arrangiarsi da sé. Del tipo che quando va dal parrucchiere i capelli se li taglia da sola e una volta dalla ginecologa stila pure (risparmiando sul ticket...) la diagnosi. Una insomma chye difficilmente ha torto quando pensa (cioè sempre) di avere ragione. Asociale bisbetica non domata, impagabile misantropa, ricca e insopportabile, Harriet: il personaggio che, sulle note dei Kinks (<il gruppo più sottovalutato di sempre...>), prende per mano <Adorabile nemica>, transgenerazionale commedia al femminile dove, nell'incontro di differenti solitudini destinate a ispirarsi a vicenda, l'elogio alla sincerità demolisce le ipocrisie post mortem, riscrivendo da capo bilanci esistenziali dati già per consolidati.
Positivo, simpatico, anche se (complice una struttura sin troppo lineare) inoffensivo, il film di Mark Pellington, nel raccontare il rapporto tra un'anziana dispotica odiata da tutti e la giovane giornalista delusa a cui chiede di scrivere, ancora in vita (così da approvarlo...), il suo necrologio, sublimato il rapporto madre/figlia, reagisce con verve all'amarezza di chi sa che deve finire e a quella di chi non riesce nemmeno a partire, dispensando, in stile vecchia Hollywood (quella certa educazione da cinema per over 65), lezioni di vita.
Un film un po' vecchio, edificante, che però permette a un'attrice monumentale come la 83enne Shirley MacLaine (che qui, rughe in vista, giganteggia) di autocelebrarsi, ripercorrendo se non la storia l'idea di una carriera votata al coraggio: anche quello di sbagliare. Perché <le persone non fanno sbagli, sono gli sbagli a fare le persone>.
Padri e figlie: Muccino, Hollywood e gli scarafaggi
Basta gettare un occhio alla sua filmografia per capirlo: da <Ricordati di me> a <La ricerca della felicità>, il rapporto tra genitori e figli è centrale nel cinema di Gabriele Muccino. E non per calcolo. Né per finta. Gli interessa davvero, lo riguarda. E questo non si può non rispettare. Il problema però è che la sua ultima impresa hollywoodiana, <Padri e figlie> (deludente sin dal titolo, che messo giù così sembra una canzone di Toto Cutugno...) assomiglia a un brutto film degli anni '80, soffre di un'idea vecchia di cinema, ha una certa propensione alle frasi fatte, è fragile anche nelle spiegazioni psicologiche, nel modo, un po' meccanico, con cui pretende di cucire o risolvere i traumi.
Non bastano cioè le star (e qui ce ne è finché si vuole: Crowe, la Seyfried, la Kruger...: ma anche l'Aaron Paul di <Breaking Bad> e persino Jane Fonda...) o un inedito di Jovanotti per fare ritrovare a Muccino lo stato di grazia dei primi film, quella spontaneità un po' smarrita, la verità (e nient'altro che la verità) dei sentimenti.
Viaggiando su un doppio piano temporale – uno scrittore con grossi problemi di salute cresce la figlia di 5 anni che poi vedremo, incapace di non farsi male, adulta -, il regista moltiplica i confronti, portando nel mondo feroce <che appartiene agli insensibili> due personaggi lacerati, costretti ad affrontare i propri fantasmi e i propri mostri, per girare, in modo morbido e con inconfondibili stilemi (la corsa...), un film tenero e ferito che non abbiamo dubbi possa piacere, ma che d'altra parte adagia i propri intenti sopra al vuoto. E che il regista, tramite il suo protagonista, si domandi <perché Dio abbia creato scarafaggi e critici> è davvero l'ultimo dei problemi: ma ho l'impressione che prima di togliersi qualche sassolino dalle scarpe, Muccino farebbe bene a fare i conti con se stesso.