Padri e figlie: Muccino, Hollywood e gli scarafaggi
Basta gettare un occhio alla sua filmografia per capirlo: da <Ricordati di me> a <La ricerca della felicità>, il rapporto tra genitori e figli è centrale nel cinema di Gabriele Muccino. E non per calcolo. Né per finta. Gli interessa davvero, lo riguarda. E questo non si può non rispettare. Il problema però è che la sua ultima impresa hollywoodiana, <Padri e figlie> (deludente sin dal titolo, che messo giù così sembra una canzone di Toto Cutugno...) assomiglia a un brutto film degli anni '80, soffre di un'idea vecchia di cinema, ha una certa propensione alle frasi fatte, è fragile anche nelle spiegazioni psicologiche, nel modo, un po' meccanico, con cui pretende di cucire o risolvere i traumi.
Non bastano cioè le star (e qui ce ne è finché si vuole: Crowe, la Seyfried, la Kruger...: ma anche l'Aaron Paul di <Breaking Bad> e persino Jane Fonda...) o un inedito di Jovanotti per fare ritrovare a Muccino lo stato di grazia dei primi film, quella spontaneità un po' smarrita, la verità (e nient'altro che la verità) dei sentimenti.
Viaggiando su un doppio piano temporale – uno scrittore con grossi problemi di salute cresce la figlia di 5 anni che poi vedremo, incapace di non farsi male, adulta -, il regista moltiplica i confronti, portando nel mondo feroce <che appartiene agli insensibili> due personaggi lacerati, costretti ad affrontare i propri fantasmi e i propri mostri, per girare, in modo morbido e con inconfondibili stilemi (la corsa...), un film tenero e ferito che non abbiamo dubbi possa piacere, ma che d'altra parte adagia i propri intenti sopra al vuoto. E che il regista, tramite il suo protagonista, si domandi <perché Dio abbia creato scarafaggi e critici> è davvero l'ultimo dei problemi: ma ho l'impressione che prima di togliersi qualche sassolino dalle scarpe, Muccino farebbe bene a fare i conti con se stesso.