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Boy erased, la terapia della conversione

E' un film ferito e consapevole, per molti versi anche coraggioso, pure se didascalico, un po' scoperto nella sua costruzione, <Boy erased>, <gemello diverso> - per tema e intreccio - di un altro film (più incisivo) uscito questa stagione, <La diseducazione di Cameron Post>. Anche in questo caso si tratta di un giovanissimo che si scopre gay: il padre, un pastore battista, lo manda allora in un centro di riabilitazione per omosessuali a seguire la <terapia della conversione>...

Diretto dall'attore Joel Edgerton e ispirato all'omonimo libro autobiografico del giornalista Garrard Conley, <Boy erased> va alle radici dell'America bianca, bigotta, arretrata, ipocrita e perbenista dove l'omosessualità è (ancora?) una colpa davanti a Dio e agli uomini. Ed è proprio l'aspetto religioso, il rapporto con il padre predicatore, la fede <tradita>, l'aspetto più interessante di un film che racconta dramma e disagio di un ragazzo che cerca solamente se stesso. Facendo luce su un fenomeno - la famigerata (e ovviamente fallimentare...) <terapia della conversione> ha interessato 700mila minori americani - le cui proporzioni stupiscono. Peccato che una regia convenzionale e un intreccio per lo più schematico facciano da zavorra al film: che può però contare sulle notevoli interpretazioni del lanciatissimo Lucas Hedges (il ragazzino di <Manchester by the sea>) e, in due ruoli d'appoggio molto ben caratterizzati, di Russell Crowe e Nicole Kidman, i genitori del protagonista.

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Nice guys, attenti a quei due

Attenti a quei due: Ryan Gosling e Russell Crowe, per la prima volta insieme, bucano lo schermo in versione strana coppia. Con licenza di uccidere, ma soprattutto di (fare) ridere. Due bei tipi, anzi due <Nice guys> come recita il titolo dell'action comedy, ambientata negli anni '70 ma girata come se fossimo ancora negli '80, in cui il divo di <Drive> e l'ex Gladiatore (molti chili dopo...) danno vita, senza prendersi sul serio, a un buddy movie all'<Arma letale>. Non a caso, Shane Black, l'allora sconosciuto sceneggiatore di quel film (che portò soldi a palate nelle casse degli studios), è anche il regista (idolatrato da giovanissimo, poi sparito e risorto) di questo poliziesco vintage e pop, tutto cazzotti, battute e gente che cade dalla finestra, preferibilmente su auto in corsa...

Una pellicola a tratti scatenata, che non risparmia sugli stunt-man e trova proprio nella singolare ma efficace alchimia tra i due interpreti il suo pregio maggiore.

Simpatico e rocambolesco (qualcuno l'ha persino paragonato a certe avventure cinematografiche di Bud Spencer e Terence Hill), <Nice guys> racconta di due scalcinati detective privati della Los Angeles fine '70 che – assunti da un pezzo grosso del dipartimento della giustizia (Kim Basinger, a proposito di nostalgia...) - decidono di lavorare insieme per risolvere l'intricato caso della sparizione di una ragazza collegata all'omicidio di una star del porno...

La trama ovviamente (con tanto di denuncia all'industria automobilistica e della deriva dell'inquinamento: specchio di problemi ancora molto attuali) è poco più di un pretesto: ben di più, oltre all'atmosfera, tra camicie a fiori e giacche di pelle, contano le situazioni comiche, i dialoghi paradossali, il lato buffo di una detective story abbastanza casinista da potere coinvolgere il (vedremo quanto) grande pubblico. Certo l'esempio di <Vizio di forma> resta lontano, qui si monta senza ripensamenti sulla giostra del cinema per tutti: ma grazie a Black (suo anche <Iron man 3>) e al produttore-mito Joel Silver (l'uomo che negli anni '80 reinventò il genere d'azione) l'operazione simpatia ha un suo fondamento e va, con la giusta irriverenza, a bersaglio.

Tanto da garantire un futuro nella commedia (e magari un sequel ambientato negli anni '80) ai due protagonisti, bravi nello stare al gioco: e a capire sin da subito che l'arte del divertire è davvero cosa serissima.

 

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Padri e figlie: Muccino, Hollywood e gli scarafaggi

Basta gettare un occhio alla sua filmografia per capirlo: da <Ricordati di me> a <La ricerca della felicità>, il rapporto tra genitori e figli è centrale nel cinema di Gabriele Muccino. E non per calcolo. Né per finta. Gli interessa davvero, lo riguarda. E questo non si può non rispettare. Il problema però è che la sua ultima impresa hollywoodiana, <Padri e figlie> (deludente sin dal titolo, che messo giù così sembra una canzone di Toto Cutugno...) assomiglia a un brutto film degli anni '80, soffre di un'idea vecchia di cinema, ha una certa propensione alle frasi fatte, è fragile anche nelle spiegazioni psicologiche, nel modo, un po' meccanico, con cui pretende di cucire o risolvere i traumi.

Non bastano cioè le star (e qui ce ne è finché si vuole: Crowe, la Seyfried, la Kruger...: ma anche l'Aaron Paul di <Breaking Bad> e persino Jane Fonda...) o un inedito di Jovanotti per fare ritrovare a Muccino lo stato di grazia dei primi film, quella spontaneità un po' smarrita, la verità (e nient'altro che la verità) dei sentimenti.

Viaggiando su un doppio piano temporale – uno scrittore con grossi problemi di salute cresce la figlia di 5 anni che poi vedremo, incapace di non farsi male, adulta -, il regista moltiplica i confronti, portando nel mondo feroce <che appartiene agli insensibili> due personaggi lacerati, costretti ad affrontare i propri fantasmi e i propri mostri, per girare, in modo morbido e con inconfondibili stilemi (la corsa...), un film tenero e ferito che non abbiamo dubbi possa piacere, ma che d'altra parte adagia i propri intenti sopra al vuoto. E che il regista, tramite il suo protagonista, si domandi <perché Dio abbia creato scarafaggi e critici> è davvero l'ultimo dei problemi: ma ho l'impressione che prima di togliersi qualche sassolino dalle scarpe, Muccino farebbe bene a fare i conti con se stesso.

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Crowe, cuore di padre: un gladiatore dietro la macchina da presa

Non chiamatela crisi di mezza età. Certo, per il gladiatore sono 50 tondi tondi: e dopo le ovazioni da Oscar nell'arena di cose ne sono successe tante. Due figli, una stella sulla Walk of fame, l'arca di Noè e le frecce di Robin Hood: si è separato, ha comprato una squadra di rugby, è diventato (lui che per passione suona con un gruppo rock) il titolo di una canzone rap. Tanto che adesso, un po' stanco di stare (solo) davanti alla macchina da presa, Russell Crowe ha deciso anche di inventarsi regista: debuttando con un ambizioso filmone avventuroso-sentimentale che ricorda non troppo da lontano l'ultima, sfortunata, pellicola di Fatih Akin (<The cut>) e comincia dove finisce un bellissimo film di Peter Weir, <Gli anni spezzati>. Proprio da quella battaglia di Gallipoli (che durante la prima guerra mondiale vide di fronte australiani e neozelandesi contro l'esercito turco) di cui non a caso quest'anno cade il centenario. Un massacro in cui l'agricoltore e rabdomante Connor ha perso tutti e i tre i figli: così, finito il conflitto, decide di partire alla volta dell'Europa per dare loro giusta sepoltura...

Non particolarmente avvincente (anche se nella seconda parte più <mosso>), troppo romanzato e con un finale (in tutti i sensi) zuccheroso, l'esordio di Crowe, più onesto e sentito che non personale, eccede in ralenti e flashback melodrammatici faticando a smarcarsi dalle regole non scritte di un cinema <classicone> e (anche stilisticamente) prevedibile. Cucito su di sé il ruolo dell'eroe tutta fede e determinazione, ostinato e <visionario>, in grado di trovare l'acqua nel deserto ma smarrito nel rimorso di avere perso i suoi figli, Crowe gioca le carte migliori quando mette in scena l'incontro-scontro (attualissimo) tra culture (e religioni) differenti, nell'intento pacificatorio con cui coglie e rispetta punto di vista e umanità dei vinti, là dove, come diceva Pavese, solo per i morti la guerra è finita davvero. E più di tutto, smesse le divise, conta essere uomini: e non caporali. La mano però, nonostante un bel piglio nelle sequenze più spettacolari, è ancora un po' scolastica per quanto corretta e le influenze cinematografiche forse troppe. Ma il neo regista (che quest'anno sarà padre anche per Gabriele Muccino) ha pure qualche <merito>: come quello di avere resuscitato dall'oblio Megan Gale (qui in una piccolissima parte), bellona degli antipodi che qualche anno fa faceva girare la testa agli italiani negli spot di una nota compagnia telefonica.

 

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