2018, Recensione Filiberto Molossi 2018, Recensione Filiberto Molossi

A casa tutti bene: la tempesta di Muccino sull'isola che non c'è

Sull'isola (che non c'è) della felicità smarrita o ritrovata, tra il tempo buttato e quello solamente trascorso, Gabriele Muccino scrive un altro capitolo della sua riflessione sulla disgregazione e perseveranza dei sentimenti, avventurandosi in un sottogenere già molto frequentato (da Scola a Dolan...) come quello della riunione familiare. E con regia ariosa e bel taglio borghese gira un film corale e burrascoso dove fa a pezzi il mito ipocrita della famiglia. Un po' bello senz'anima però questo <A casa tutti bene>, che segna il ritorno in Italia del regista 50enne dopo la lunga parentesi americana: e in un'Ischia senza nome ritrova la sua Itaca, dimostrando sensibilità nel gestire più storie contemporaneamente (in una sorta di gioco di invisibili porte girevoli) e sicurezza nella direzione di un cast polifonico e all star, scontrandosi d'altro canto con una scrittura un po' basica, un congegno narrativo un po' vecchio.

Una grande famiglia festeggia le nozze d'oro di una coppia di ristoratori: ma bloccati dal mare grosso, figli e nipoti devono fermarsi più del previsto. Alimentando tensioni destinate ad esplodere...

Segreti, rancori mai sopiti, piccole e grandi vigliaccherie, figliol prodighi, rimorsi, <buddità>: tra coppie che scoppiano e altre che <fanno solo finta>, Muccino scatena la tempesta assaporando l'amarezza di vite e affetti strascicati. Il film ha un suo equilibrio e una sua verità, ma manca un po' di profondità: di vizio, di malattia, di spessore.

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Padri e figlie: Muccino, Hollywood e gli scarafaggi

Basta gettare un occhio alla sua filmografia per capirlo: da <Ricordati di me> a <La ricerca della felicità>, il rapporto tra genitori e figli è centrale nel cinema di Gabriele Muccino. E non per calcolo. Né per finta. Gli interessa davvero, lo riguarda. E questo non si può non rispettare. Il problema però è che la sua ultima impresa hollywoodiana, <Padri e figlie> (deludente sin dal titolo, che messo giù così sembra una canzone di Toto Cutugno...) assomiglia a un brutto film degli anni '80, soffre di un'idea vecchia di cinema, ha una certa propensione alle frasi fatte, è fragile anche nelle spiegazioni psicologiche, nel modo, un po' meccanico, con cui pretende di cucire o risolvere i traumi.

Non bastano cioè le star (e qui ce ne è finché si vuole: Crowe, la Seyfried, la Kruger...: ma anche l'Aaron Paul di <Breaking Bad> e persino Jane Fonda...) o un inedito di Jovanotti per fare ritrovare a Muccino lo stato di grazia dei primi film, quella spontaneità un po' smarrita, la verità (e nient'altro che la verità) dei sentimenti.

Viaggiando su un doppio piano temporale – uno scrittore con grossi problemi di salute cresce la figlia di 5 anni che poi vedremo, incapace di non farsi male, adulta -, il regista moltiplica i confronti, portando nel mondo feroce <che appartiene agli insensibili> due personaggi lacerati, costretti ad affrontare i propri fantasmi e i propri mostri, per girare, in modo morbido e con inconfondibili stilemi (la corsa...), un film tenero e ferito che non abbiamo dubbi possa piacere, ma che d'altra parte adagia i propri intenti sopra al vuoto. E che il regista, tramite il suo protagonista, si domandi <perché Dio abbia creato scarafaggi e critici> è davvero l'ultimo dei problemi: ma ho l'impressione che prima di togliersi qualche sassolino dalle scarpe, Muccino farebbe bene a fare i conti con se stesso.

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Crowe, cuore di padre: un gladiatore dietro la macchina da presa

Non chiamatela crisi di mezza età. Certo, per il gladiatore sono 50 tondi tondi: e dopo le ovazioni da Oscar nell'arena di cose ne sono successe tante. Due figli, una stella sulla Walk of fame, l'arca di Noè e le frecce di Robin Hood: si è separato, ha comprato una squadra di rugby, è diventato (lui che per passione suona con un gruppo rock) il titolo di una canzone rap. Tanto che adesso, un po' stanco di stare (solo) davanti alla macchina da presa, Russell Crowe ha deciso anche di inventarsi regista: debuttando con un ambizioso filmone avventuroso-sentimentale che ricorda non troppo da lontano l'ultima, sfortunata, pellicola di Fatih Akin (<The cut>) e comincia dove finisce un bellissimo film di Peter Weir, <Gli anni spezzati>. Proprio da quella battaglia di Gallipoli (che durante la prima guerra mondiale vide di fronte australiani e neozelandesi contro l'esercito turco) di cui non a caso quest'anno cade il centenario. Un massacro in cui l'agricoltore e rabdomante Connor ha perso tutti e i tre i figli: così, finito il conflitto, decide di partire alla volta dell'Europa per dare loro giusta sepoltura...

Non particolarmente avvincente (anche se nella seconda parte più <mosso>), troppo romanzato e con un finale (in tutti i sensi) zuccheroso, l'esordio di Crowe, più onesto e sentito che non personale, eccede in ralenti e flashback melodrammatici faticando a smarcarsi dalle regole non scritte di un cinema <classicone> e (anche stilisticamente) prevedibile. Cucito su di sé il ruolo dell'eroe tutta fede e determinazione, ostinato e <visionario>, in grado di trovare l'acqua nel deserto ma smarrito nel rimorso di avere perso i suoi figli, Crowe gioca le carte migliori quando mette in scena l'incontro-scontro (attualissimo) tra culture (e religioni) differenti, nell'intento pacificatorio con cui coglie e rispetta punto di vista e umanità dei vinti, là dove, come diceva Pavese, solo per i morti la guerra è finita davvero. E più di tutto, smesse le divise, conta essere uomini: e non caporali. La mano però, nonostante un bel piglio nelle sequenze più spettacolari, è ancora un po' scolastica per quanto corretta e le influenze cinematografiche forse troppe. Ma il neo regista (che quest'anno sarà padre anche per Gabriele Muccino) ha pure qualche <merito>: come quello di avere resuscitato dall'oblio Megan Gale (qui in una piccolissima parte), bellona degli antipodi che qualche anno fa faceva girare la testa agli italiani negli spot di una nota compagnia telefonica.

 

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