Diego e Maradona: le due anime del dio del calcio
In ricordo di Diego Armando Maradona, il mio pezzo sul documentario che l’anno scorso gli dedicò, tra luci e ombre, Asif Kapadia
O mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon? Ha ragione lui, il suo personal trainer, forse la persona più fidata dei tanti (troppi) che gli stavano intorno: «C’è un Diego e un Maradona: e il primo non ha niente a che fare con l’altro». Uno era il fenomeno del pallone, il ragazzino che trascinò via a suon di gol la sua famiglia dalla bidonville, il condottiero ribelle che sancì il riscatto di Napoli e del Sud, l’idolo delle folle che guidò la rivincita degli ultimi: l’altro, invece, era il malato di sesso e cocaina, l’amico dei camorristi, il campione incapace di reggere la pressione soffocante di una città, madre e matrigna, che lo considerava alla stregua di un semidio o, come minimo, di San Gennaro. Ci sono entrambi, sia Diego che Marado nel bel documentario con cui Asif Kapadia (premio Oscar per il film che ha dedicato alla vita di Amy Winehouse), attraverso materiale di repertorio e molti video inediti (500 ore di girato scremati e montati fino a farne un film di 130 minuti), racconta, fuori concorso, un mito dell’«arte dell’inganno» (così il più forte di tutti definì il calcio), giocando sul quel dualismo interiore, su quelle due anime così diverse, così distanti, eppure costrette a convivere. L’arrivo al San Paolo, il gol all’Inghilterra, i giochi con la figlia a cui insegnava a insultare Juve e Milan... Niente che non si sappia, niente di particolarmente nuovo: eppure il film, accompagnato dalle testimonianze audio dello stesso Maradona, dei suoi familiari e delle persone che gli sono state - professionalmente e non - più vicine, ha una verità, un’autenticità che per verificarla non c’è bisogno del Var. Kapadia (che trova e mette in relazione, tra le migliaia che ha visionato, immagini anche molto potenti e rivelatrici) non fa sconti né all’uomo né alla leggenda: come quando, ormai grasso e patetico Diego gioca a calcetto dove nessuno gli passa più nemmeno la palla: triste y final.