Avatar, io ti vedo: la via del successo
«La felicità è semplice». Anche se passeggera. Forse è proprio lì, in quella prima frase, quando stai ancora cercando di regolare la poltrona reclinabile, il segreto. E' lì la spinta che ti fa zittire Siri e Alexa, uscire dalle invadenti piattaforme, dimenticarti persino dello smartphone: e indossare occhiali 3 D che credevi già reperto archeologico per immergerti per oltre tre ore nel liquido amniotico della meraviglia. Là, nell'abisso per nulla quieto dove un altro mondo (e un altro modo) è possibile: ma che ha senso e innesco solo - ed esclusivamente - in quella scatola magica che chiami sala, in quella casa-chiesa dove il rito diventa esperienza, visione, frontiera.
E allora sì, «io ti vedo»: in quel kolossal ibrido e eco-pacifista, tribale, avventuroso e ribelle che celebra un universo meticcio e inclusivo c'è il (pro)fondo di un luogo segreto dove battono i cuori. Ancora. Insieme. Perché non si può non riconoscere al sequel, atteso e tardivo, del film che ha incassato di più di tutti nella storia del cinema, il fascino del pezzo unico, la suggestione - gigante - di un oggetto che per quanto reiterato resta irripetibile: un sogno monstre, sbalorditivo dal punto di vista tecnico (e tecnologico), che James Cameron, affinché possa stare a galla fa tuffare in 3 milioni e mezzo di litri d'acqua, quelli della grande piscina dove la pellicola è stata girata, o per meglio dire concepita.
Spettacolare e iperconnesso (con la natura, col mondo...), «Avatar-La via dell'acqua» riannoda i fili (e le code...) riassumendo rapidamente i tredici anni trascorsi dall'originale: Jake Sully, il caporale che si schierò con i nativi guidandone la resistenza vive come capo dell'Omaticaya su Pandora con la sua compagna Neytiri. I due hanno avuto tre figli, un'altra l'hanno adottata e si occupano anche di un ragazzo umano. Una grande famiglia minacciata però nuovamente dalla guerra. E dalla vendetta. Da qui la decisione di abbandonare la foresta chiedendo ospitalità al clan della barriera corallina, dove è la legge del mare a comandare...
Spirituale, next age, molto attento alle rivendicazioni care agli adolescenti di oggi (il tema dell'identità, il rapporto tra genitori e figli che spesso non si sentono all'altezza gli uni degli altri, la forte spinta e convinzione ambientalista), in «Avatar 2» il moderno misticismo ecologista incontra la terrena forza (ultra) familista (che è il perno morale dell'intera pellicola): Cameron, messa al bando la logica della sopraffazione e del profitto di un'umanità già morta che però (in un rapace e incontrollato desiderio di eternità) non vuole morire mai, fa del suo kolossal un film sull'incontro e sulla comprensione. E allora ecco, in un 3 D subacqueo funzionale alla creazione di un mondo costruito sulla «profondità», gli echi (come nel primo episodio) delle guerre indiane, del Vietnam, persino dell'invasione russa in Ucraina, di «Atto di forza» o (autocitazione non da poco) di «Titanic»; sacrificio, autoesilio, lutto, rinascita, ricordo, espiazione, scelta: gli occhi hanno la meglio sulla narrazione, lo sguardo è sempre più appagato del cervello. Ma il regista di «Terminator», che della saga di Pandora ha già in agenda i capitoli 3, 4 e 5, riesce anche stavolta nel miracolo di girare un blockbuster senza rinunciare alle pretese d'autorialità, qualcosa che sta, per capirci, tra Leibniz e il milk shake. Il risultato è potente anche se, con tutta onestà, devo ammettere che mi hanno interessato ed intrigato di più i due minuti del trailer di «Oppenheimer» di Nolan (esce a luglio, calma) che i 192 di questo secondo «Avatar».
Provocatorio e spiazzante: Elle fa a pezzi il fascino indiscreto della borghesia
Il film più provocatorio, ambiguo e spiazzante dell'anno? Lo ha girato un giovanotto che a luglio ne fa 79, uno che un giorno ha avuto la geniale idea (o malaugurata, fate voi) di chiedere a Sharon Stone di accavallare le gambe e 25 anni dopo ancora gliela menano... Un olandese che si fa beffe della morale, capace come pochi di sputtanarsi per poi risorgere quando meno te l'aspetti, a dimostrare che non solo la fortuna, ma pure il talento, arride agli audaci.
Regista, carnale e violento, dalla carriera folle e vitalissima (da <Il quarto uomo> a <Robocop>, da <Atto di forza> allo scult <Showgirls>), l'immarcabile Paul Verhoeven gira con <Elle> una commedia nerissima, che dopo un inizio choc prende una strada coraggiosamente grottesca, disinnescando più di una volta la tensione con una risata liberatoria: un film cattivo e moderno con cui l'autore torna forte sulla scena che conta per fare a pezzi, con una feroce satira zeppa di sorprese, nevrosi e rivelazioni, il fascino indiscreto della borghesia.
Tratto dal romanzo di Philippe Djian <Oh...>, <Elle> mescola con grande proprietà, sguardo originale e profondo disincanto generi molto differenti (il thriller, la commedia, il dramma: la vita, insomma...) aggrappandosi dal primo all'ultimo minuto a Michèle, manager alla guida di una ditta di video giochi che viene violentata da uno sconosciuto col volto coperto da un passamontagna. Figlia di uno psicopatico condannato all'ergastolo per avere compiuto una strage molti anni prima, la donna non ha nessuna intenzione, temendo troppo clamore, di andare alla polizia. E prova a risolvere da sola il mistero, innescando con il suo stupratore un gioco sadico.
Rapporti malati, verità scomode, fantasie inconfessabili: ma anche anziane signore che vogliono sposare il proprio gigolo, pallidi commessi di fast food che fanno finta di non accorgersi che gli è nato un bimbo di colore, cene delle beffe che finiscono in tragedia. Ben lungi dal volere girare un film sulla violenza contro le donne (che si guarda bene d'altra parte dal minimizzare), Verhoeven piuttosto realizza con gran ritmo un sardonico ritratto di insieme, un film volutamente scomodo che, in bilico tra attrazione e repulsione, veste di segreta complessità un personaggio non qualunque, a cui la solita straordinaria Isabelle Huppert (candidata all'Oscar per questo ruolo) dona fascino e imprevedibilità.
Regina indiscussa (e indiscutibile) di un film senza ma, forse e però: magnifico contropiede alla banalità imperante.