Protagonisti, 2025 Filiberto Molossi Protagonisti, 2025 Filiberto Molossi

Il buco e la ciambella: David Lynch, il regista dal cuore selvaggio

Ha avuto genio - e stile -, lui che ha passato una vita con la camicia abbottonata fino al colletto, anche nell'uscita di scena. Con quelle parole scolpite sui social dalla sua famiglia che dicono molto di quello che è stato e ancora è: «C'è un grande vuoto nel mondo ora che non è più con noi. Ma, come diceva lui, “guardate la ciambella e non il buco”». In fondo c'è il sole, «it's a beautiful day». Amen. Ma se davvero volete guardare la ciambella - e sarebbe ora di decidersi a farlo - vi trovereste davanti a una delle personalità più visionarie, urticanti e inclassificabili del cinema degli ultimi 50 anni, un autore mai rassicurante né conformista che ha destabilizzato il senso stesso della visione. Andate a rivedervi la scena dell'incidente di «Cuore selvaggio», il film al quale Bernardo Bertolucci consegnò riconoscente la Palma d'oro di Cannes. O i brutti tizi che battono le dita sul tavolo in «Mulholland Drive», uno dei film più seducenti di sempre. Ricordo la prima a Cannes, gli sguardi persi nel vuoto all'uscita. E la ragazza che aspettava il taxi accanto a me: «Non ho capito niente: ma è bellissimo». Ma penso anche a John Merrick, il protagonista umano troppo umano di «Elephant Man», all'Isabella Rossellini, scandalosa e magnifica, di «Velluto Blu» e naturalmente a «Twin Peaks», che inventò il concetto moderno di serialità: per noi ventenni cresciuti con i quiz di Mike Bongiorno e i Sanremo di Baudo fu uno choc. Da cui, fortunatamente, non ci siamo mai ripresi. Non è mai stato banale: non nei film, né nelle scelte, né negli spot (uno anche per la Barilla con Depardieu) o nei video musicali. Ha insegnato a tutti senza pretendere da nessuno di essere seguito. Fai buon viaggio: chissà, forse almeno in Paradiso si può ancora fumare.

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2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Mistress America, sorellanza senza retorica: come fai a non volergli bene?

E' figlio di due critici ed ex marito di un'attrice famosa (Jennifer Jason Leigh) e sul set non lo sentirai mai gridare <azione!>, ma al massimo buttare lì, con educazione tutta newyorchese, un <cominciamo> o un <quando volete>... Se ancora c'è qualcuno che si domanda perché in Italia non si fanno film (apparentemente semplici e sempre efficaci) come quelli di Noah Baumbach – 46 anni, da Brooklyn, nome di punta del cinema indipendente a stelle e strisce - la ragione è presto detta: non siamo capaci. Non li sappiamo scrivere così bene, non abbiamo attrici così in gamba (o non le facciamo lavorare) e mentre lui (già stretto collaboratore di Wes Anderson) riesce con estrema facilità a rendere autentico un soggetto inventato noi di solito brilliamo nell'impresa opposta. E' anche per questo che non è difficile volere bene a un film come <Mistress America>, tra le cose migliori passate all'ultima Festa del cinema di Roma, disinvolto e scioltissimo sia a livello di scrittura che di montaggio: una commedia divertente, <smart>, intelligente, antiretorica, diretta e onesta oltre che priva di qualsiasi orpello e (facile e non) moralismo.

In una New York dove capita spesso di sentirsi soli, l'incontro, sul filo della <sorellanza>, tra Tracy, goffa e esclusa matricola del college che passeggia per il mondo come una che è a una festa dove non conosce nessuno e Brooke, trentenne vulcanica, incontenibile e soprattutto inconcludente. Non si conoscono, ma la madre dell'una e il padre dell'altra hanno deciso di sposarsi: tanto vale fare amicizia...

Scritto molto bene, con dialoghi frenetici e parole che rimbalzano come in un flipper in cui mentre si discute di una cosa si è già passati a un altro argomento (e via così), <Mistress America>, tra buffe sedute spiritiche, meeting letterari di donne incinta e ricchi <che si inventano di tutto per non spendere>, cuce due bei personaggi addosso a Greta Gerwig (musa e co-sceneggiatrice del regista) e a Lola Kirke (che al supermercato, indecisa su che pasta prendere, sceglie la Barilla...), bravissime nel restituire sentimento e insuccesso di due generazioni che (come tutti) faticano a capire qual è il loro posto nel mondo.

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La giovinezza: l'irresistibile tentazione di un ultimo palleggio

<Uomini, animali, piante: che differenza fa? Siamo tutti dei figuranti>.

In un luogo che è nessuno e insieme tutti, dove <le emozioni sono sopravvalutate> e la leggerezza <una tentazione irresistibile>, la sfacciata arroganza della (grande) bellezza incontra, sulla pedana circolare della vita che resta - sfinito girotondo -, il corpo sfatto della malinconia, che poi è il destino di non essere capiti, di essere, semplicemente, <passati>. Come il tempo, che ti sfugge quasi fosse acqua tra le mani, corre, scappa senza voltarsi indietro. Come i ricordi, che verranno dimenticati, cancellati: quella ragazza tempo fa, le battute di un film, persino un palleggio mancino che ti pareva potesse durare un'eternità. Tutti quegli sforzi per nulla, tutti quei gesti - una volta sicuri, certi, definitivi - smarriti in un'inevitabile decadenza: tutte quelle cose - i sentimenti, le parole mai dette, i rimpianti - che, forse, non si possono più aggiustare. Nel loop del disincanto, dove però, nonostante tutto, si resta ancora aggrappati (come in <Mia madre> di Moretti) al domani. E si scende a patti col presente che, ora e dopo, è l'unico vero futuro possibile.

E' come una carezza data ai figli mentre fingono di dormire, <La giovinezza>: una visionaria, potente, antinarrativa (e a tratti autoreferenziale), riflessione sul tempo che muore, tra orrore e desiderio, canzoni de <Il tempo delle mele> e mucche <musicali>, Novalis e Stravinskij, Hitler e - persino - (il sosia di) Maradona...

Surreale, felliniano (se <La grande bellezza> aveva più di qualcosa in comune con <La dolce vita> qui il termine di paragone è <8 1/2>), inventivo, il nuovo, attesissimo, film di Paolo Sorrentino, struggente e divertente allo stesso tempo, ci porta in un resort di lusso sulle Alpi: quello dove trascorrono le vacanze due vecchi amici, un direttore d'orchestra che si è ritirato dalle scene e un regista che vuole girare il suo film testamento.

Scritto e diretto dal regista napoletano (già pronto a una nuova avventura, la serie per il piccolo schermo <Young Pope> con Jude Law) con l'abituale, meravigliosa, fotografia, di Luca Bigazzi e un supercast di levatura internazionale (Michael Caine truccato da Servillo, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano e persino Jane Fonda), <La giovinezza>, dedicato a Francesco Rosi e realizzato anche col contributo della Barilla, si muove tra alto e basso, serio e grottesco, vanità e rassegnazione, riproponendo un'idea estetica di accecante perfezione e di lirica pulizia: il limite piuttosto, rispetto a un capolavoro come <La grande bellezza> (più sorprendente e toccante), è nella presunzione stavolta tenuta meno a freno, in quell'essere a tratti <piacione>, nel risultare a volte sentenzioso e un po' troppo innamorato di se stesso.

Ricco di trovate, vitale anche nella sua <decadenza>, bello, anche bellissimo, <La giovinezza>: ma un po' paraculo, per dirla come va detta.

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