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Enea, la generazione rotta di Pietro Castellitto

Una cosa va detta: a Pietro Castellitto la personalità non manca. E nemmeno il coraggio. Insomma, ha una voce «sua»: ma che non sempre si ha necessità o voglia di ascoltare. All'opera seconda (dopo il discusso «I predatori»), il giovane regista romano (classe '91), continua a piacersi molto (e, forse, troppo): e pecca non poco di presunzione con il nichilista «Enea», grottesco e visionario spaccato borghese che fa detonare gli stereotipi di un'epoca decadente e deludente, nella sardonica dissoluzione di una Roma (e di un mondo) che non crede più a nulla.

I circoli, i clan, «rum e cocaina»: ma pure le foto di nonna.. Di questo «periodo strano», la «generazione rotta» di Castellitto jr (che qui nel cast ingaggia anche il padre e il fratello) non risparmia nulla, non rispetta niente: è la sua forza ma anche il limite di un film che invece di spaccare tutto, nella storia di due figli di papà dediti allo spaccio di droga (l'altro è il deb Giorgio Quarzo Guarascio, ossia il cantautore Tutti Fenomeni) finisce per trascinarsi un po', cullandosi nelle stesse frasi fatte che vorrebbe demolire.

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Il volo da fermo del Colibrì

Che poi se ci pensi è tutto lì, in quello sforzo: quello che fai per riempire il vuoto. Che quello sforzo, mica lo capisci subito, ma è la vita: e, nonostante tutto, ti piace, ti basta, così. Anche se a volte scappi nella direzione sbagliata o credi di avere ancora tempo: ma è il tempo che si fa gioco di te. E allora «metti tutta la tua l'energia per restare fermo»: in attesa che quella bimba che dorme nell'amaca diventi abbastanza grande per dirle di non piangere.

Sa essere struggente - e toccante anche - per quanto non sempre voli altissimo - «Il colibrì» di Francesca Archibugi, trasposizione - ad alto rischio - del romanzo premio Strega molto amato e altrettanto letto di Sandro Veronesi, già di per sé, per concezione e struttura narrativa, «intimamente» cinematografico. Un libro che l'Archibugi affronta con rispetto mantenendo, coraggiosamente (ma opportunamente) l'ossatura di una storia mai lineare o cronologica, ma fatta tutta di salti, balzi, risonanze che la regista affronta con (pure a volte un po' meccanica) scioltezza, senza sottolineare inutilmente con date in sovrimpressione i continui cambi temporali, ma lasciando che a parlare sia il make up, la scenografia, i sentimenti.

In questo modo la vicenda umana di Marco Carrera, bimbo troppo piccolo per la sua età, ragazzo sopravvissuto rocambolescamente a un incidente aereo, adulto resiliente capace di resistere, mettendo gli altri davanti a sé, alle bufere e agli insulti della vita, uomo innamorato sempre e solo della stessa donna, ha un senso per tutti, ognuno ci riconosce la propria crepa.

Piuttosto il film, dove un'infinità di interpreti a fuoco (da Nanni Moretti a Berenice Bejo, da Benedetta Porcaroli a Laura Morante e Kasia Smutniak) si muovono intorno al protagonista Pierfrancesco Favino, nel non volere dimenticare nessun pezzo per strada, nel non riuscire a rinunciare a nulla, sovraccarica l'intreccio di eventi, ma non ha il tempo (come ha il romanzo o avrebbe avuto, brutto dirlo, una serie) di lasciarli decantare. Con il risultato che si fa fatica ad affezionarsi a questo o quel personaggio e che, paradossalmente l'overbooking sentimentale si traduca a tratti nello schermo, a causa della complessità della sintesi, in un bignami emotivo.

Restano però la tenerezza, i primi piani e una storia legata come un filo invisibile a un amore che non può finire, anche se forse non è mai davvero iniziato: e una dolcezza che sa raccontare lo strazio come la gioia. E dell'uno come dell'altra conosce nome e indirizzo.

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