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Tre volti: in viaggio con Panahi sulla strada della libertà

Ripercorre le strade tortuose del suo maestro Kiarostami, tra villaggi dove ci sono <più antenne paraboliche che abitanti> (e neanche un medico...), Jafar Panahi, il dissidente regista iraniano a cui Teheran vieta ancora (vergogna) l'espatrio: portando se stesso all'interno dell'inquadratura per riflettere dapprima sulla verità delle immagini, sulla possibilità di manipolarle (e, in definitiva, sul cinema, compromesso tacito tra imbroglio e realtà) per poi denunciare la condizione femminile in un Paese ostaggio della sua arretratezza anche culturale, dove <studiare non serve> e gli artisti vengono considerati alla stregua di inutili saltimbanchi. Un riuscito, ispirato, docu-fiction politico <Tre volti>, in cui il regista si mette in gioco insieme all'attrice (anche lei nella parte di se stessa) Behnaz Jafari, andando alla ricerca (un po' come in <Dov'è la casa del mio amico>: ma c'è qualcosa anche di <Sotto gli ulivi>) di una ragazza che gli ha inviato il video del suo suicidio. Ma si è davvero uccisa? O è solo una messinscena, un estremo grido d'aiuto? Viaggio nell'Iran più periferico e marginale (che, anacronistico e legato alle tradizioni, colpisce però anche per dignità e gentilezza), ricco anche di spigolature e spunti ironici (come nell'incontro con la vecchina al cimitero che dorme prima nel tempo nella sua fossa o la telefonata del regista con la madre, ansiosa come tutte le mamme del mondo), <Tre volti> (premio per la miglior sceneggiatura – ex aequo con <Lazzaro felice> - a Cannes) è un on the road per buona parte girato (come <Taxi Teheran>) all'interno di un'auto (uno dei pochi luoghi dove il regista, perseguitato dal regime, si sente al sicuro...) in cui il virtuoso e poetico minimalismo di Panahi corre in aiuto - sulle strade accidentate dove il potere non arriva - della libertà di espressione e di scelta.


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Un affare di famiglia: la Palma d'oro della sensibilità

Che poi i legami, gli affetti, la riconoscenza mica la misuri col sangue, mica è una questione di geni, di nomi, di ereditarietà. Perché la famiglia, se vuoi, la scegli. E, a volte, sei scelto da lei.

Non c'è regista – e dico nel mondo - più sensibile e attento all'avventura, a volte rocambolesca, altre drammatica, dell'essere (o del semplice ritrovarsi) genitori e figli del giapponese Kore-eda che riporta ancora una volta la famiglia (mai così serena nella sua in realtà tragica disfunzionalità) al centro del suo cinema capace di grande introspezione, di imprevedibili e delicate complicità, di letture sempre scomode e stratificate. Qui addirittura il grande maestro alza l'asticella girando un film che si svela lentamente, un racconto moralmente complesso e coraggioso, in cui i più disinteressati esempi di affetto, di umanità e di appartenenza arrivano, paradossalmente, da personaggi che vivono nell'illegalità, nella menzogna, nel crimine. Un cortocircuito etico - in un Paese travolto non solo dalla crisi economica ma anche da quella dei valori-, là dove ciò che è giusto non ha un solo colore, ma mille, spesso incomprensibili, sfumature. La storia di una famiglia che accoglie in casa una bambina maltrattata: sono indigenti, vivono di piccoli furti e sanno che rischiano l'accusa di rapimento, ma non se la sentono di restituirla alla madre violenta...

Seduto su una montagna di segreti, di ambiguità, di nodi che via via si sciolgono, questo bellissimo film – Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes - nella rappresentazione di quella strana famiglia allargata di rifiutati, sopravvissuta a se stessa (e alle proprie cicatrici), tesse una ragnatela fittissima di rapporti e dinamiche che avvolgono temi cruciali (l'infanzia abusata, la povertà, la violenza, la comprensione...) di un mondo in cui nulla è come sembra, ma dove le maschere a volte sono paradossalmente più vere dei volti.

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