Un affare di famiglia: la Palma d'oro della sensibilità
Che poi i legami, gli affetti, la riconoscenza mica la misuri col sangue, mica è una questione di geni, di nomi, di ereditarietà. Perché la famiglia, se vuoi, la scegli. E, a volte, sei scelto da lei.
Non c'è regista – e dico nel mondo - più sensibile e attento all'avventura, a volte rocambolesca, altre drammatica, dell'essere (o del semplice ritrovarsi) genitori e figli del giapponese Kore-eda che riporta ancora una volta la famiglia (mai così serena nella sua in realtà tragica disfunzionalità) al centro del suo cinema capace di grande introspezione, di imprevedibili e delicate complicità, di letture sempre scomode e stratificate. Qui addirittura il grande maestro alza l'asticella girando un film che si svela lentamente, un racconto moralmente complesso e coraggioso, in cui i più disinteressati esempi di affetto, di umanità e di appartenenza arrivano, paradossalmente, da personaggi che vivono nell'illegalità, nella menzogna, nel crimine. Un cortocircuito etico - in un Paese travolto non solo dalla crisi economica ma anche da quella dei valori-, là dove ciò che è giusto non ha un solo colore, ma mille, spesso incomprensibili, sfumature. La storia di una famiglia che accoglie in casa una bambina maltrattata: sono indigenti, vivono di piccoli furti e sanno che rischiano l'accusa di rapimento, ma non se la sentono di restituirla alla madre violenta...
Seduto su una montagna di segreti, di ambiguità, di nodi che via via si sciolgono, questo bellissimo film – Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes - nella rappresentazione di quella strana famiglia allargata di rifiutati, sopravvissuta a se stessa (e alle proprie cicatrici), tesse una ragnatela fittissima di rapporti e dinamiche che avvolgono temi cruciali (l'infanzia abusata, la povertà, la violenza, la comprensione...) di un mondo in cui nulla è come sembra, ma dove le maschere a volte sono paradossalmente più vere dei volti.