2018, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2018, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Un affare di famiglia: la Palma d'oro della sensibilità

Che poi i legami, gli affetti, la riconoscenza mica la misuri col sangue, mica è una questione di geni, di nomi, di ereditarietà. Perché la famiglia, se vuoi, la scegli. E, a volte, sei scelto da lei.

Non c'è regista – e dico nel mondo - più sensibile e attento all'avventura, a volte rocambolesca, altre drammatica, dell'essere (o del semplice ritrovarsi) genitori e figli del giapponese Kore-eda che riporta ancora una volta la famiglia (mai così serena nella sua in realtà tragica disfunzionalità) al centro del suo cinema capace di grande introspezione, di imprevedibili e delicate complicità, di letture sempre scomode e stratificate. Qui addirittura il grande maestro alza l'asticella girando un film che si svela lentamente, un racconto moralmente complesso e coraggioso, in cui i più disinteressati esempi di affetto, di umanità e di appartenenza arrivano, paradossalmente, da personaggi che vivono nell'illegalità, nella menzogna, nel crimine. Un cortocircuito etico - in un Paese travolto non solo dalla crisi economica ma anche da quella dei valori-, là dove ciò che è giusto non ha un solo colore, ma mille, spesso incomprensibili, sfumature. La storia di una famiglia che accoglie in casa una bambina maltrattata: sono indigenti, vivono di piccoli furti e sanno che rischiano l'accusa di rapimento, ma non se la sentono di restituirla alla madre violenta...

Seduto su una montagna di segreti, di ambiguità, di nodi che via via si sciolgono, questo bellissimo film – Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes - nella rappresentazione di quella strana famiglia allargata di rifiutati, sopravvissuta a se stessa (e alle proprie cicatrici), tesse una ragnatela fittissima di rapporti e dinamiche che avvolgono temi cruciali (l'infanzia abusata, la povertà, la violenza, la comprensione...) di un mondo in cui nulla è come sembra, ma dove le maschere a volte sono paradossalmente più vere dei volti.

Read More
2018, Festival, Classifiche Filiberto Molossi 2018, Festival, Classifiche Filiberto Molossi

Cannes, ecco il pagellone: seconda parte

Finito il festival, con due premi ai film italiani e la vittoria di Shoplifters (voto 8, vedi precdente pagellone), ecco la seconda parte dei nostri voti alle pellicole in concorso.

BLACKKKLANSMAN 7+

Il film che rilancia le quotazioni di Spike Lee: una commedia d'azione politica e anti Trump che fa rivivere l'epoca blaxpoitation. Risate: ma pensando che oggi forse è peggio di ieri.

EN GUERRE 5,5

Da Brizé un altro sguardo amaro e severo alle leggi del mercato: rabbia anticapitalista, ma qui si rasenta il documentario e i tavoli della trattativa si rivelano estenuananti.

UNDER THE SILVER LAKE 4,5

Un frullato poco digeribile di Lynch, Richard Kelly, Cronenberg e Hitchcock. Ironia e citazioni a valanga: ma sembra il film di uno che ha fumato roba non troppo buona.

PLAIRE, AIMER ET COURIR VITE 6

Melodramma gay ben scritto e ben interpretato, non privo di ironia: ma dire che interessi quello che accade è un po' molto.

BURNING 7,5

Tratto da Murakami: prima parte molto bella, meno la seconda, più apertamente thriller. Ma è un film dove a volte durante una sigaretta fumata senza dire niente si dice tutto. 

DOGMAN 8

Un noir metafisico e alienato, un bellissimo spaccato umano che accarezza l'abisso e tende al punto di non ritorno. Marcello Fonte, Palma per il migliore attore a Cannes, è straordinario.

CAPHARNAUM 6,5

Un occhio a Saalam Bombay e un altro a Sciuscià nell'inferno di bambini e immigrati. Un po' già visto, ma forte l'idea di partenza col ragazzino che denuncia i genitori per averlo messo al mondo.

UN COUTEAU DANS LE COEUR 4,5

Ambientato nel mondo del porno gay anni '70 avrebbe potuto essere il Boogie nights francese, ma si accontenta di assomigliare a un brutto film di Dario Argento.

THE WILD PEAR TREE 8

Il cinema di Ceylan è una ragazza che ti eri dimenticato quanto era bella, un bacio rubato, un morso nel vento. Un film che scava anche quando tutti dicono che è inutile.

AYKA 6 +

Ritratto spietato della Russia che si prepara ai mondiali, gelo anche morale, 12 ore al giorno di lavoro, spietatezza diffusa. Anche qui non molto di nuovo: ma una bella ansia.

 

 

 

 

 

 

 

Read More
Recensione, Festival, 2017 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2017 Filiberto Molossi

L'uragano dei sentimenti: Ritratto di famiglia con tempesta

 <Non troverai mai la felicità se non lasci andare qualcosa>.

E' un cinema dove gli alberi di mandarino hanno un senso anche se non fanno più fiori e frutti: forse perché danno da mangiare ai bruchi, che sanno ancora, almeno loro, come si diventa farfalle. E' un cinema così: che accarezza ogni singola, umana, debolezza, in cerca di una serenità che passa anche dal confronto con le proprie debolezze, smarriti come siamo in quell'uragano di sbagli, rimorsi e occasioni perdute che chiamiamo vita. Dove ci affanniamo a inseguire le illusioni del futuro o perdiamo tempo a rimpiangere il passato: incapaci, invece, di amare semplicemente il presente.

Sensibile narratore di rapporti familiari complessi che indaga sempre in punta di piedi, a matita, con la comprensione tenera di un narratore che non vuole farsi giudice, il 55enne giapponese Hirokazu Kore-eda (quello di <Father and son> e <Little sister>) offre con <Ritratto di famiglia con tempesta> un'altra grande dimostrazione di come un film possa parlare, tra un amore che abbiamo fatto scappare e legami che è necessario ricucire,  al cuore delle (piccole) cose, là dove abitano i (grandi) sentimenti.

Compresso nello spazio di un weekend, ambientato per lo più in una cucina, un film colmo di saggezza e urbana poesia che segue le vicissitudini di uno scrittore in disarmo, inaffidabile giocatore d'azzardo senza speranza, che, indebitato sino al collo,  ruba i risparmi dell'anziana madre e si mantiene facendo l'investigatore privato, tra pasticci e doppi giochi. Un moderno cialtrone (sarebbe stato un personaggio perfetto per Vittorio Gassman) che non riesce a pagare gli alimenti all'ex moglie e fatica a riconquistarsi la fiducia del figlio...

Complice la solita delicatezza, lo sguardo intimo e minimalista che lo contraddistingue, l'autore giapponese invita il suo cinema di ideogrammi – dove il segno, il movimento, l'inquadratura, contiene anche l'idea di ciò che rappresenta (un sentimento, uno stato d'animo, una sottile, o magari più spessa, malinconia) - a un'improvvisata riunione familiare dove la verità prende dolcemente il sopravvento. In una parabola esistenziale di cui la bella chiusura <happysad> è la prova più evidente di una nuova e più matura consapevolezza.

Read More
Festival, Recensione, 2016 Filiberto Molossi Festival, Recensione, 2016 Filiberto Molossi

Little sister: quelle piccole donne in salsa di soia in un mondo di orfani

E' il come più del cosa o del perché. E' il soffio che crea il vetro, che poi è materiale trasparente, sincero, indifeso alla vista, autentico al tatto. E' un cinema così, gentilissimo al tocco, che ricuce con ago e filo le crepe dell'anima, seguendo le tracce sotterranee di traumi antichi e debolezze mal celate, quello del giapponese Kore-eda: come un oggetto fatto a mano, con cura e delicatezza, che ci senti dentro l'affetto di chi lo ha pensato, di chi lo ha creato.

Narratore intimo e mai prevaricatore delle dinamiche familiari, il 53enne regista di <Father and son> racconta in <Little sister> (in concorso a Cannes lo scorso maggio e poi vincitore del premio del pubblico a San Sebastian) la storia di tre sorelle che, alla morte del padre che non vedono da anni, conoscono la sorellastra acquisita: una timida adolescente che decidono di accogliere nella loro casa...

Se qualcuno ha voluto trovare una dimensione favolistica nella vicenda (tratta da una graphic novel) di questa ragazzina, accolta e benvoluta dalle tre sorellastre quasi fosse una Cenerentola al contrario, in realtà, quello dell'autore giapponese è più di tutto un film al femminile ricco di sensibilità, dove la vita viene presa a piccoli sorsi e anche l'assenza più pesante (il padre delle quattro sorelle è il classico elefante nella stanza, o se preferite il convitato di pietra) non è mai urlata, ma solo sussurrata. Il film (ottimo rimedio naturale per tonificarsi dopo le indigestioni natalizie di cinepanettoni e affini) parte piano e poi via via cresce, toccando le leve giuste, addirittura sedimentandosi nel tempo, lasciando un gusto buono anche molti giorni dopo la visione: lettore attento dei paradossi e delle prove del quotidiano, Kore-eda accarezza con agrodolce umanità le tenui ma non invisibili fragilità delle sue piccole donne in salsa di soia, celebrando la sorellanza (e il valore del ricordo) come antidoto a un mondo dove è sin troppo facile sentirsi orfani.

Read More