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A Real Pain, una strana coppia nel tour del dolore

Per molti, se non per tutti, è il tizio che ha impersonato l'inventore di Facebook Mark Zuckerberg in uno dei film più belli degli ultimi 15 anni, «The Social Network». Ma è stato anche Lex Luthor e uno dei maghi della serie (il terzo film è in arrivo) di «Now you see me». Con quella faccia un po' così da eterno ragazzino (anche se ormai sono 42), timido controvoglia, Jesse Eisenberg prende per mano la sua opera seconda da regista e l'accompagna in un on the road «sentimentale» in cerca delle radici (le proprie, prima di tutto) e della necessaria ma ormai sbiadita umanità (laddove le tragedie sono sempre più tradotte in numeri e i luoghi dell'Olocausto sono meta di di viaggi organizzati) del dolore. Che per essere affrontato e - magari, un giorno - superato può essere solo vero, concreto, reale.

Stile indie (non a caso il lungo e glorioso viaggio del film è partito dal Sundance) e contrappunto targato Chopin, «A Real Pain» è una commedia drammatica teneramente depressa (d'altra parte, «non si può essere sempre felici»...) che gioca se vuoi in modo ovvio ma con grande delicatezza ed empatia sui meccanismi della strana coppia. Qui rappresentata da due cugini americani, che volano in Polonia per vedere la casa della nonna ebrea, sopravvissuta alla Shoah e morta di recente: uno, David, è impacciato, perennemente preoccupato, regolare, quadrato; l'altro, Benji, è solo, casinista, irrisolto, a volte imbarazzante. Uno ha un buon lavoro e una moglie e un figlio che lo aspettano a casa: l'altro trascorre il suo tempo negli aeroporti perché «c'è un sacco di gente interessante». Ma per quanto il primo sia quello serio, il secondo riesce sempre, in qualche modo, a farlo sembrare (o sentire) inadeguato. Come fratelli: costretti a confrontarsi sul proprio legame in un tour sul dolore: quello della memoria e quello, contemporaneo, presente, che ti spacca, ti lacera, dentro.

Intelligente e angosciato (ma sempre con una certa leggerezza, e con pudore), intimo e umanista, il film dà la possibilità a Eisenberg di lavorare di cesello sull'autobiografismo (la casa della nonna del film è la casa reale della sua famiglia), dimostrando cura e vero interesse nel sondare rapporti, legami ed emozioni che racconta in modo mai plateale né esibito, anche nei momenti più accesi. Ma il plus del film sono ovviamente gli interpreti: lo stesso Eisenberg, nei panni di un personaggio, David, perennemente fuori dalla zona di comfort, e un bravissimo Kieran Culkin (il fratello che ce l'ha fatta del bimbo che perdeva l'aereo...), che dopo «Succession» e due Golden Globes può legittimamente aspirare all'Oscar (il film è candidato anche per la miglior sceneggiatura): dando forma sullo schermo, sempre in bilico tra euforia e disagio, a una fragilità che forse gli appartiene.

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Vermiglio, lo sguardo autentico, partecipe e vero di un piccolo grande cinema

VERMIGLIO

C'è una madre con tanti figli e una figlia che deve rinunciare al suo: ci penso guardando all'orrore di Vignale, a quei bimbi partoriti e sotterrati, e il cinema di Maura Delpero - che anche qui come nella sua opera prima fa della maternità (reiterata, negata, ritrovata) un tema centrale - mi sembra ancora più vicino, più puro, più intimamente necessario.

Nel nome del padre-bambino che le è apparso in sogno portandosi dietro l'intuizione di questo film, la Delpero, al secondo lungometraggio di finzione, gira nella Val di Sole paterna una pellicola tenera (anche nelle amarezze) e profondamente onesta: il suo «Vermiglio» ha il rigore della montagna e la schiettezza delle cose semplici («che in bianco si sposano solo i ricchi»...), ricorda da vicino il cinema di Olmi (e il miglior Diritti) e in quattro movimenti come le stagioni accoglie nelle sue inquadrature fisse un lessico familiare che poi è la lingua dei sentimenti e silenzi che non hanno bisogno di parole, ma al massimo, quello sì, di carezze.

Ritratto di una famiglia numerosa del '44 - con il padre (Tommaso Ragno) maestro elementare e la madre praticamente sempre incinta - in un paesino del Trentino (Vermiglio, appunto) dove trovano rifugio due soldati in fuga dalla guerra, il film, Leone d'argento alla Mostra del cinema di Venezia e candidato italiano agli Oscar, lavora benissimo sulle relazioni tra genitori e figli, mettendo la vicenda così in primo piano da fare vivere un'esperienza sensoriale. Trovando inoltre i volti giusti, in un'alchimia felice tra interpreti professionisti e non, attori navigati e debuttanti, come l'intensa Martina Scrinzi (Lucia), una rivelazione .

Mentre sulle note di Chopin, delusioni, rinunce, desideri vivi o repressi trovano conforto in uno sguardo autentico, partecipe, vero. Emblematico esempio di come si possa fare grande cinema anche con una «piccola» storia.

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