Vermiglio, lo sguardo autentico, partecipe e vero di un piccolo grande cinema
VERMIGLIO
C'è una madre con tanti figli e una figlia che deve rinunciare al suo: ci penso guardando all'orrore di Vignale, a quei bimbi partoriti e sotterrati, e il cinema di Maura Delpero - che anche qui come nella sua opera prima fa della maternità (reiterata, negata, ritrovata) un tema centrale - mi sembra ancora più vicino, più puro, più intimamente necessario.
Nel nome del padre-bambino che le è apparso in sogno portandosi dietro l'intuizione di questo film, la Delpero, al secondo lungometraggio di finzione, gira nella Val di Sole paterna una pellicola tenera (anche nelle amarezze) e profondamente onesta: il suo «Vermiglio» ha il rigore della montagna e la schiettezza delle cose semplici («che in bianco si sposano solo i ricchi»...), ricorda da vicino il cinema di Olmi (e il miglior Diritti) e in quattro movimenti come le stagioni accoglie nelle sue inquadrature fisse un lessico familiare che poi è la lingua dei sentimenti e silenzi che non hanno bisogno di parole, ma al massimo, quello sì, di carezze.
Ritratto di una famiglia numerosa del '44 - con il padre (Tommaso Ragno) maestro elementare e la madre praticamente sempre incinta - in un paesino del Trentino (Vermiglio, appunto) dove trovano rifugio due soldati in fuga dalla guerra, il film, Leone d'argento alla Mostra del cinema di Venezia e candidato italiano agli Oscar, lavora benissimo sulle relazioni tra genitori e figli, mettendo la vicenda così in primo piano da fare vivere un'esperienza sensoriale. Trovando inoltre i volti giusti, in un'alchimia felice tra interpreti professionisti e non, attori navigati e debuttanti, come l'intensa Martina Scrinzi (Lucia), una rivelazione .
Mentre sulle note di Chopin, delusioni, rinunce, desideri vivi o repressi trovano conforto in uno sguardo autentico, partecipe, vero. Emblematico esempio di come si possa fare grande cinema anche con una «piccola» storia.