Il tempo che ci vuole: Francesca Comencini abbraccia suo padre
IL TEMPO CHE CI VUOLE
«Prima la vita, poi il cinema».
E' un film pieno di affetto, che non ha paura di guardare dentro le fauci della balena, tra l'incantamento del cinema, favola meravigliosa che irrompe, sognante, nella realtà, e il senso di inadeguatezza di esistenze complicate, quello che Francesca Comencini ha girato, con grande sensibilità, nel nome del padre (e di sé), mettendosi in gioco fino in fondo nel racconto toccante del rapporto con suo padre Luigi, il grande regista di «Tutti a casa» e «Le avventure di Pinocchio».
Una storia dalla quale la Comencini esclude volutamente ogni altro membro della famiglia (ha tre sorelle, una delle quali è la regista Cristina), per fare de «Il tempo che ci vuole», presentato fuori concorso alla Mostra (dove nell'84 con «Pianoforte» vinse il Premio per la migliore opera prima), un film personalissimo, tenero e insieme struggente, in cui, oltre al ritratto di un uomo integro, sempre dalla parte dei bambini e delle loro necessità, comprensivo ma fermo, innamorato del proprio lavoro che però non mise mai al di sopra della sua famiglia, coglie la grande complicità di un rapporto padre/figlia unico, quanto emblematico e umanissimo.
L'infanzia magica sui set, l'adolescenza ribelle della droga, la rinascita a Parigi, la maturità da regista: tra gli echi di Piazza Fontana e quelli del rapimento di Moro, tra carezze e scontri, Francesca Comencini gira con delicatezza un passo a due dove il cinema è una grande via di fuga e si può persino piangere davanti a «Paisà», trovando due interpreti perfetti in Fabrizio Gifuni e in Romana Maggiore Vergano («C'è ancora domani»), magnifica alter ego della regista.
Tornare: la Mezzogiorno in cerca di se stessa
«La memoria si ricorda solo quello che si vuole ricordare». Perché il passato è così: ha la consistenza del fango. È materia molle, rischi, alla lunga, di rimanerci invischiato. Si svela già dal titolo, «Tornare»: che ha dentro il «nostos» greco, che qui è viaggio dentro di sè, come anche il «volver» spagnolo e almodovariano, in quel suo essere cinema del riavvolgersi, del riscoprirsi. Là dove il confronto con gli spettri del passato è inevitabile oltre che necessario, quando quella ragazzina nella foto non sembri più nemmeno tu. Cerca di ridare una forma al suo specchio interiore, andato in frantumi molti anni prima, la protagonista del nuovo film di Cristina Comencini, dramma psico (e auto) analitico tormentato, ma poco spontaneo e fin troppo premeditato: la scontata elaborazione di un trauma rimosso (e di un lutto: la morte dell'innocenza) che sfocia nel giallo esistenziale. Alice torna dopo lungo tempo nella Napoli (velata) degli anni '90, per partecipare al funerale del padre: ma la casa di famiglia e i luoghi della sua infanzia, le risvegliano ricordi che pensava di avere smarrito per sempre... Nelle stanze vuote del labirinto dei giorni perduti, la Comencini celebra l'incontro (rimandato troppe volte) tra una turista malinconica delle sue stesse reminiscenze, ribelle invecchiata ed ex ragazza sbagliata, con la se stessa che fu e in cui ormai fatica a riconoscersi: e sulle strada dissestata del rimosso gira un film borghese, intimo, inquieto. Che dietro (come è chiaro sin da subito) si porta dietro un segreto, un peso, un'ombra. Ma seppure evocativa, la pellicola non è mai particolarmente appassionante, anzi risulta un po' meccanica e non del tutto inedita nel congegno narrativo. Poco aiutata, nella ricerca della verità, anche dagli interpreti: se Giovanna Mezzogiorno sembra avere dissipato nel tempo la sua bellezza e la sua convinzione, Vincenzo Amato è di monocorde ambiguità. L'unica a portare nel film - non solo per l'età - una ventata di freschezza è Beatrice Grannò, bella scoperta appena vista anche nella serie «Doc» dove interpreta la figlia del protagonista Luca Argentero.
Latin lover: quel padre divo e un'ultima, grande, Virna Lisi
E’ un personaggio di fantasia, ma è molto Gassman e un po’ Mastroianni (e cinematograficamente mille altri: da Sordi a Volontè passando per Giuliano Gemma) il «Latin lover» che dà il titolo all’ultimo film di Cristina Comencini: ma è più di tutto una scusa, l’alibi, affettuoso assai, per rendere omaggio al glorioso cinema italo-internazionale degli anni ‘60 e ‘70. Che la regista cita di continuo, per celebrarlo e, forse, in cuor suo, anche per «liberarsene»: cresciuta com’è tanto quanto le sue, incasinatissime e «incomplete», protagoniste, nell’ombra lunga e non sempre confortevole di un padre grande e ingombrante.
Commedia al femminile corale e divertita di stravagante e mal digerita sorellanza, «Latin lover» sfrutta uno dei motivi più usurati del cinema di sempre (la riunione di famiglia, pensa un po’) per stendere, con garbo, sullo schermo un tappeto di nevrosi, segreti, veleni, rancori vecchi e nuovi, frustrazioni, rivelazioni, sorprese, debolezze e psicodrammi. Le montagne russe dei sentimenti su cui si muovono, attente a non inciampare, cinque sorelle di madre e nazionalità differenti: frutto dell’amore (a volte parecchio fugace...) di un gran divo del cine scomparso dieci anni prima, donnaiolo impenitente e mattatore consumato che ai posteri oltre a decine di indimenticabili interpretazioni ha lasciato una famiglia che sembra una puntata di giochi senza frontiere. Ovvio che ogni «figlia di» reclami un pezzo di quel mito: ma altrettanto naturale che solo guardandolo con distacco ognuna di loro riuscirà a riappropriarsi di sé. Cominciando un nuovo film...
Regista familista di prudente immaginazione, la Comencini mette in scena la recita della vita aggiungendo all’amarezza di ogni scoperta il dolcificante del sorriso: ma tra echi lontani di «Speriamo che sia femmina», la sua pochade risulta un po’ troppo costruita (o perlomeno scritta), certamente partecipata, ma anche popolata da alcuni personaggi scoperti, prevedibili nelle loro fragilità. E per quanto il gesto sia gentile (e la mano ferma), «Latin lover» fatica, inoltre, a tirarsi via di dosso un’aria stilisticamente televisiva, adatta a ogni palato. Affiatato – e non poco – però il cast multietnico: dove una meravigliosa Virna Lisi (a cui il film è dedicato) firma la sua ultima interpretazione. Dimostrando, insieme a un’altrettanto ispirata Marisa Paredes (l’attrice feticcio di Almodovar), che il cinema non è un gioco da ragazze. Ma un passatempo per grandi signore.