Cry Macho: Clint, l'ultimo cowboy mette in discussione il suo stesso mito
«Un tempo ero tante cose: ora non più. Pensi di avere tutte le risposte, poi diventi vecchio e ti accorgi che non ne hai nessuna».
La voce di Clint: quella, soprattutto. La voce di Clint è un vinile graffiato, un miracolo chiuso a chiave in cantina, una lama sottile che affetta la nostalgia. Lui, l'ultimo cowboy, macho pentito, ma senza rimorsi né rimpianti. E' la voce (e bene fa The Space a proporre il film anche in versione originale sottotitolata) di un vecchio disarmato, un fantasma sul confine dell'esistenza, un uomo d'onore e di parola («lo faccio perché glielo devo») nella terra di nessuno. Last man standing, Clint: ancora alla guida (come ne «Il corriere»), per non dire in sella (come ne «Gli spietati»). Ma in cerca di pace, stavolta, della sua isola che non c'è: un non luogo che sfugga alle regole della città, del consumismo, della violenza. Un posto dove potere ballare, finalmente: e vivere, prima di morire. Poi certo, il Clint regista, il cineasta che a 91 anni (no, non è un errore di battitura) dirige film come raccontasse storie attorno a un fuoco, pretende troppo dal Clint attore: che vorrebbe imbrogliare sull'età, ma non sempre ci riesce e si regge in piedi sul suo stesso mito, a volte arrancando. E così se è poco plausibile il tentativo di seduzione di una mangiauomini che ha meno della metà delle sue primavere come anche gli occhi dolci di una vedova rapita dal carisma del veterano, ancora peggio è volerci fare credere di essere in grado di domare un cavallo selvaggio, a cui si prestano invece volentieri stuntman e controfigure. Debolezze grossolane di un film di cui gli americani non hanno perso l'occasione (anche a ragione) di sottolineare il sentimentalismo didascalico, eppure imprevedibilmente tenero in quella sua saggezza serena, nel suo animalismo sincero, in quella ricerca ostinata di una semplicità senza guerre né slogan. Storia di un ex divo del rodeo messo ko dalla vita che accetta di andare in Messico per riportare in Texas il figlio adolescente del suo ex capo, «Cry Macho» (il Macho del titolo è il gallo da combattimento che il ragazzo si porta dietro), più riuscito quando ironico (a tratti la meccanicità dei dialoghi è pesante), non privo di errori di casting (il ragazzino poteva essere scelto con maggiore attenzione), dà però modo a Eastwood di mettere in discussione il suo stesso status di leggenda, di icona, gringo ancora incerto sulla fede ma pronto a chiedere alla Santa Vergine un riparo, cavaliere pallido in cerca di quiete dopo molte tempeste. Un lavoro di destrutturazione e demistificazione del suo io eroico che è ciò che qui più di tutto interessa all'ultimo gigante del cinema americano. Non più ispirato come in passato, ma determinato come non mai: «Vuoi un bicchiere?» «No, grazie: ho un lavoro da fare».