Giurato numero 2, verità e giustizia secondo Clint Eastwood
La sposa è bendata, la giustizia pure: guardiamo, ma senza vedere. Eh già, proprio così: «avere i paraocchi può essere controproducente». E nessuno lo sa meglio di lui, che a 94 anni compiuti gli importa poco assai che il postino suoni una o due volte: tanto, può sempre bussare...
In un mondo dove è ogni giorno più difficile dire (e soprattutto fare) cosa è giusto, Clint Eastwood chiude in una stanza un Paese in stallo, diviso e ingannato, consapevole come non mai che il percorso verso la redenzione è tortuoso, tormentato, accidentato. E gira con «Giurato numero 2» un film teso, asciutto, amaro - e implacabile - sulla fragilità di una verità di cui ci appropriamo indebitamente truccandola a nostro piacere (e convenienza), mai nitida, mai ferma né definitiva: e della quale, anche quando - raramente - oggettiva, accertata, il sistema (giudiziario, politico, legislativo) fatica a essere all'altezza.
C'è il «ti draso» della tragedia greca, la pietra angolare di tutte le storie della civiltà occidentale, nella parabola di Justin Kemp (Nicholas Hoult, ma la migliore in campo è la procuratrice Toni Collette), passato da alcolista e ora marito responsabile con figlio in arrivo; un giorno viene chiamato a fare parte di una giuria popolare che deve decidere la sorte di un uomo accusato di avere ucciso la propria ragazza. Ma ben presto si rende conto che l'imputato potrebbe essere innocente e che il colpevole di quella morte, accidentalmente (a causa di un incidente stradale), potrebbe essere un altro: lui stesso...
Preso spunto da una situazione limite, Eastwood fa incontrare «La parola ai giurati», il capolavoro-archetipo di Lumet, con il legal thriller, rivitalizzando il buon vecchio cinema classico figlio del dubbio. E del dilemma. A qualcuno potrebbe sembrare a prima vista un film minore, «regular», ma non fatevi ingannare: Clint ci prende per il bavero perché piaccia o no quel protagonista assomiglia a noi, alle nostre debolezze e colpe di ordinary people, ai nostri doveri, alle nostre paure e responsabilità. Perché no, nemmeno stavolta è un mondo perfetto. E non è un caso che la macchina da presa prediliga inquadrature e soggettive dal basso verso l'alto: perché per quanto ci sentiamo giudicanti saremo sempre e solo giudicati.