Licorice Pizza, l'amore va di corsa
L'amore va di corsa. Anche in quel continuo, lento, inesorabile, rincorrersi, l'amore va di corsa. Perché mica c'è tempo da perdere. Nemmeno quando il tempo è già passato. Oppure è eterno, o semplicemente non esiste: come quello del cinema. Come quello dei ricordi. E' appeso a un bacio non dato, aggrappato alla speranza (o alla certezza?) dell'inevitabile, l'ultimo film, pop, seducente e irresistibilmente vintage, di quel geniaccio di Paul Thomas Anderson, che sì corre, ma non ha nessuna fretta. E gira un una pellicola divagante e naturalista che si cerca di continuo e ci costringe allo sguardo, proprio come i due protagonisti che, vicini o lontani, insieme oppure divisi, non smettono di osservarsi, magari mentre l'uno non si accorge dell'altra. O fa solamente finta. Lui ha improbabili camicie a maniche corte colorate, lei una gonna parecchio corta, lui 15 anni, lei 10 in più, lui le chiede che progetti ha per il futuro, lei se, per favore, può smettere di respirare...: che sarà amore lo capisci subito, basta un sorriso e uno specchio. E la dolcezza di certi carrelli, come quello, magnifico, della sequenza d'apertura in doppio piano sequenza, la tenerezza di certi movimenti: e la musica, i pantaloni viola, hamburger e patatine, piedi nudi, mani che si sfiorano, gambe che si toccano, il mistero, enorme, di quello spazio, sottile, tra l'ombelico e il bottone dei jeans. Nel continuo avvicinarsi e allontanarsi di una struttura episodica e «sospesa», là dove la forma (e il «vizio di forma») non è «più» del contenuto, ma «è» il contenuto, e le cineprese camminano sui tacchi a spillo, il regista di «Magnolia» (anche se qui siamo più dalle parti di «Ubriaco d'amore») celebra con «Licorice Pizza» (è la catena di negozi di dischi, oggi fallita, dove Anderson ha trascorso molte ore della sua infanzia...) l'età dell'innocenza, l'entusiasmo, spavaldo e incosciente, della giovinezza, il tempo dei sogni assurdi e delle imprese (im)possibili). Lo fa alla sua maniera, cioè benissimo: tra materassi ad acqua, flipper, divi di Hollywood (tra le guest star di lusso Sean Penn, Tom Waits e Bradley Cooper) che interpretano divi (o tipi) di Hollywood. Tornando a casa (la San Fernando Valley di molti dei suoi capolavori) per girare, con piglio Seventies, una pellicola più personale che autobiografica che ha il cuore (in tumulto) di un adolescente, due interpreti perfetti (lui, Cooper Hoffman, è il figlio dell'indimenticato Philip Seymour, lei, Alana Haim, è membro della band delle Haim e sullo schermo porta tutta la famiglia...), una colonna sonora da urlo: cioè tutto quello che dovreste chiedere a un film.
Il corriere: sulla strada di Clint, l’uomo che sfidò il tempo
C'è un senso profondo, qualcosa di epico, come un passo di addio, l'etica di chi accetta il suo destino a costo di dichiararsi colpevole (sì, di tutto) quando sa di esserlo, nel cinema fondo e crepuscolare di Clint Eastwood, 88 anni che grondano leggenda in un'America dilaniata da una crisi che costringe anche la terza età a fare il lavoro sporco: autore senza filtri (<mai pensato di averne uno>), arrivato a un punto (per coraggio e anagrafe) da potere dire ciò che vuole (magari anche a due afroamericani che <no, non siamo tutti uguali>), politicamente (e pesantemente) scorretto eppure felicemente inattuale, lui, reduce di mille battaglie, che si porta dietro la saggezza di una vita vissuta. Uno che si incazza se lo scambiano per James Stewart - l'eroe positivo dei film di Frank Capra -, e si scaglia contro una modernità che ha perso il <fare> (<è il problema della vostra generazione: guardate Internet anche per aprire una scatoletta>) oltre che il <sapere>, schiava del cellulare (<non ce l'avete una vita al di là di quel telefonino?>) e di un Web <che rovina tutto>. Ci fa la morale Clint e mica gli puoi dare torto: macina chilometri sulle strade assolate della colpa e dell'espiazione, giganteggiando in un altro film-testamento in cui racconta di traffici turpi con una gentilezza fuori moda, fuori tempo, con la stessa delicatezza di una rosa che sfiorisce senza fretta. Per modellare, complice un'incredibile storia vera, l'ennesimo personaggio indimenticabile della sua galleria senza tempo, <eroe> senza ambiguità di un'epoca ambigua: Earl Stone, veterano della guerra di Corea, galante coltivatore di fiori, padre (la figlia, non a caso interpretata dalla primogentita di Eastwood, Alison, non gli parla da anni) e marito assente. Uno <sbocciato tardi>, per così dire: mai una multa in tutta la sua vita e pochissima dimistichezza con gli smartphone. Rimasto al verde, con l'ex moglie che non lo vuole nemmeno vedere all'uscio, decide allora di intraprendere una nuova <carriera>: il corriere della droga per i cartelli messicani... La prima volta è per dare una mano alla nipote che si deve sposare, un'altra per mettere a posto la sede dei reduci: insospettabile e imprevedibile, svia la polizia e arriva sempre a destinazione. Ma un giorno il gioco si fa duro.
In qualche modo autobiografico, umanista, pervaso del buon senso di chi fa la cosa sbagliata per farne – finalmente – una giusta, l'ultimo film di Eastwood mette al primo posto la famiglia, i suoi valori, e quelli di un cinema antico, schietto e onesto; a qualcuno non piacerà il sentimentalismo finale, la consumata lentezza di un viaggio verso la redenzione, ma Clint, mai come questa volta, è il padre di tutti i nostri successi e di tutti i nostri sbagli. L'ultimo pistolero che ha perso il duello con il tempo (come i suoi emerocallidi, i fiori che durano un solo giorno) e affronta disarmato tutti i suoi rimpianti: la vita che resta è un fiore reciso, ma nessuno gli potrà mai impedire di sorridere a un'altra giornata di sole.
Fronte del palco: Lady Gaga, A star is born
Ci sono loro: che non è poco. Perché lei è una diva assoluta, una tipa da milioni di dischi, che per la prima volta si mostra al naturale, struccandosi persino l'anima, scoprendosi bellissima anche se non la è davvero, priva, finalmente, di quei quintali di accessori, di tinte, di costumi. E perché lui è quello di <Una notte da leoni>, ma anche di <American sniper> e de <Il lato positivo>, tre nomination all'Oscar, nonni italiani, una figlia con la super model Irina Shayk e il desiderio di mettersi in gioco, senza spocchia, anche come regista. E poi c'è la musica: e quella sì, conta. Fronte del palco, live, struggente come una ballata country oppure acclamata e cantata all'unisono come una hit del momento. La musica che è ovunque, che è dappertutto: partitura sentimentale con cui dare un senso allo sgualcito pentagramma della vita.
C'è tutto questo in <A star is born>, il filmone romantico e disperato che segna il doppio debutto (lui alla regia e lei nel cinema, con un personaggio che ha più di qualcosa di autobiografico) di Bradley Cooper e Lady Gaga: ma, a dire il vero, è anche un po' tutto qui. Nella chimica (sexy, empatica) che si innesca tra i due protagonisti (e allo stesso modo tra gli interpreti, chiamati a darsi reciprocamente fiducia), nelle canzoni (tante e alcune molto belle: le nostre preferite sono <Shallow>, <Always remember us this way> e <Maybe it's time>), nella love story da consumare e bruciare sulla via del successo.
Remake del remake del remake di un film che già di per sè si ispirava al mito di Pigmalione, il <nuovo> <A star is born> (l'originale è addirittura del '37, la versione più famosa è quella con Judy Garland del '54, la più recente e riconoscibile quella del '76 con Barbra Streisand) ha sicuramente i crismi del successo annunciato (e negli Usa qualcuno già parla di Oscar...), ma al di là di un bell'approccio iniziale (più personale della seconda parte, meno riuscita) fatica onestamente a imporsi per scrittura, non riuscendo a fornire originalità a una rappresentazione in realtà piuttosto convenzionale.
Nella storia di un cantante alcolizzato che lancia nello showbiz una ragazza che non crede in se stessa, innamorandosene e facendone una star, destinata poi a osservare, nella sua irresistibile ascesa, il declino dell'altro, Cooper (convinto giustamente da Lady Gaga a cantare con la sua voce anche se l'ultima volta che si era esibito era ancora al college...) maneggia un soggetto iconico (una scelta rischiosa, ma anche <di difesa> in un certo senso), un melò senza tempo: ma in diversi passaggi il suo film appare frettoloso (nonostante i 135 minuti di durata), là dove il cuore della pellicola avrebbe dovuto invece essere più maledetto, più tossico, più vissuto. Oltre che più fondo. E così, alla fine, più che il Bradley Cooper regista è Lady Gaga attrice a lasciare il segno: è nata una stella. Ma non da oggi.
Joy, se il sogno americano spazza via le delusioni col mocio
Cenerentola ha le idee chiare: <Non mi serve un principe>. Non vuole andare al ballo: piuttosto si accontenterebbe di pulire il bagno con facilità. In fondo, lo ha sempre saputo: per diventare principessa non ha bisogno di un cavaliere senza macchia, ma solo di se stessa. E di una scopa che spazzi via le malignità e le invidie di matrigna e sorellastra. Gran narratore delle dinamiche familiari, meglio se disfunzionali (da <The fighter> a <Il lato positivo>), un debole riconosciuto per le donne audaci (vedi <American hustle>) a cui anche questo film è dedicato, David O. Russell torna a raccontare il Paese <dove l'ordinario incontra lo straordinario ogni giorno>, celebrando – con un gusto tutto suo - l'ostinazione di un sogno americano più forte di ogni fallimento. Come nella storia (vera e vissuta) di Joy Mangano, la donna che inventò il mocio. Una che è partita con una madre teledipendente, un padre restituito dalle amanti come fosse un oggetto difettoso e un ex marito parcheggiato nel seminterrato: e un sacco di debiti. Roba che un giorno le hanno portato via anche la casa: e quello dopo si è ritrovata a guidare un impero da dieci milioni di dollari l'anno grazie alla sua <Miracle Mop> usata da tutte le casalinghe...
Esegeta di una vita sempre e comunque a ostacoli, cantore ironico della rivincita, O. Russell costruisce l'umanissima leggenda di una self made woman stanca che i suoi sogni fossero sempre in lista d'attesa rileggendo la sua avventura esistenziale con lo stile della soap opera, grazie a tocchi surreali che non faticano a fare breccia in un'America da Falcon Crest, ipnotizzata dalla propria mediocrità e dalle prime televendite.
E' il punto di forza di un film a cui manca un po' la scintilla, ma che d'altra parte azzecca tende e carta da parati quando fa il make up alla realtà, ammorbidendo, almeno stilisticamente, i contorni di un passato che vorrebbe invece mostrarci solo gli spigoli. Frullati i generi (<tra “Anna Karenina” e “Dallas” non c'è poi tutta questa gran differenza>, ha detto il regista...), O. Russell romanza il biopic e allontana l'happy end per divertirsi sulle montagne russe (perché sì, le porte in faccia sono più dei sorrisi) del melò: e anche nei momenti più spenti, trova nella fedelissima (ma sono della partita anche gli immancabili Bradley Cooper e Robert De Niro. E la new entry Isabella Rossellini) Jennifer Lawrence, candidata all'Oscar (è la quarta volta ad appena 25 anni: non so se mi spiego), una splendida e tenace protagonista. Un'attrice capace di usare il mocio con la stessa naturalezza con cui impugna l'arco in <Hunger games>: e che quando si guarda allo specchio nel riflesso fissa anche la sua anima.
American sniper: l'infallibile mira del pistolero Clint
<Sta a te decidere>.
La solitudine del cecchino prima di premere il grilletto. Vita o morte, senza rimpianti, in un'esistenza appesa al cielo (e a un filo): sparare o non sparare, questo è il dilemma. Che un giorno ti ritrovi 170 di pressione, una taglia da 180 mila dollari sulla testa e un soprannome guadagnato sul campo, colpo su colpo: <Leggenda>. Ma poi scatti anche solo al rumore di un tosarerba... Che mica lo sanno, là fuori, che non è facile per niente la vita del cane pastore: tutti i giorni a vegliare sul gregge dalla ferocia dei lupi, tutti i giorni a proteggere le <pecorelle> smarrite. Storia (vera) dell'uomo che voleva salvare tutti ma perse se stesso: solo l'ultimo pistolero, Clint Eastwood, gigante del cinema che amiamo, poteva raccontare la parabola, amara e antiretorica, del tiratore scelto Chris Kyle. E sviscerare - in un bellissimo film dove non conta tanto quello che gli uomini fanno in guerra ma piuttosto quello che la guerra fa agli uomini - contraddizioni ed etica profonda del mestiere delle armi.
Texano dagli occhi di giaccio, Kyle si arruola nei Seals e viene spedito in Iraq: dove diventa l'arma letale della missione a stelle e strisce. Cecchino dalla mira infallibile, uccide 160 persone, tra cui donne e bambini (usati come <bombe umane>), salvando però la vita a migliaia di commilitoni: ma ogni volta tornare a casa è più dura...
In una tormenta di sabbia che confonde le ragioni e i torti, Eastwood in <American sniper> sposa il punto di vista di un protagonista di cui coglie la fede come anche la fragilità, e fa di un figlio di un'America rurale tutta chiesa e patria, dove si diventa uomini andando a caccia e tenendo le chiappe strette su un cavallo da rodeo, una versione deformata, oltre che virile, mortale e fisicata, di quel giovane Holden che voleva prendere al volo i ragazzini che stavano per cadere nel dirupo. E nell'inconsapevole tentazione di Kyle di sostituirsi a Dio, di essere l'angelo custode (inevitabilmente imperfetto) degli all american boys, il vecchio Clint (84 e non sentirli) parte, riavvolge e riparte, alternando le sequenze di combattimento (splendida quella del primo confronto tra cecchini, dove tiene aperti contemporaneamente tre <fronti>, vera e propria lezione di montaggio e di racconto cinematografico) a quelle familiari, girando un film essenziale ed emozionante in cui, con la necessaria complicità di Bradley Cooper (che, messi su 20 chili di muscoli, è stato il primo a credere nell'operazione opzionando i diritti dell'autobiografia di Kyle), riflette sul rapporto invisibile che lega (per sempre) chi sta da questa e dall'altra parte del mirino, tra chi guarda e chi è (senza saperlo) guardato, là dove non è difficile scorgere nel cannocchiale di un fucile la metafora dell'obiettivo (che <spara> all'immagine eternandola) di una macchina da presa: perché l'occhio uccide ancor prima del grilletto.