Oscar mania: ecco chi ne ha vinti di più
Partecipare è bello, ma non è proprio la cosa più importante quando si parla dell’ambitissima statuetta chiamata Oscar. I premi del 2019 sono stati assegnati:. Ma chi sono le attrici, i registi e gli attori che hanno vinto più statuette? Eccoli qui.
4 OSCAR
Katherine Hepburn
Regina delle attrici, ne ha vinti più di ogni altro interprete: nemmeno Meryl Streep (con 9 nomination in più: 21 a 12) è riuscita ancora a raggiungerla. Il primo nel ‘34 - con “La gloria del mattino” -, l’ultimo nell’82 grazie a “Sul lago dorato”: in mezzo 50 anni di leggenda. Un fenomeno difficilmente raggiungibile.
John Ford
”Mi chiamo John Ford e faccio western”. Regista patriarca del cinema classico americano non vince l’Oscar con “Ombre rosse”, il suo film più famoso, che si deve inchinare al leggendario “Via col vento”. Ma tra gli anni ‘30 e gli anni ‘50, trionfa 4 volte, record assoluto per un regista.
Alfonso Cuaròn
Pazzesco: ne vince due come regista (l’ultimo l’altra sera per “Roma”), ma altri due per categorie “tecniche”: il montaggio di “Gravity” e la fotografia di “Roma”. Bisogna contarne 2 (quelli da regista) o 4? Noi optiamo per questa seconda scelta, perché il cinema senza di lui sarebbe più povero.
3 OSCAR
Meryl Streep
La più nominata di sempre: tre Oscar su 21 tentativi, è la prezzemolina della notte delle stelle. Talmente straordinaria che non ci sarebbe da stupirsi se, a breve, riuscisse ad aggiungere una quarta statuetta alla sua già preziosa collezione. Ha ottenuto almeno una nomination in tutti gli ultimi 5 decenni.
Jack Nicholson
Uno dei tre attori ad avere vinto tre Oscar: personalità strabordante quanto almeno il suo impressionante talento, ghigno luciferino, Nicholson, classe ‘37, ha una carriera strepitosa. Ma il primo Oscar non si scorda mai: quello per “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, uno dei film più coraggiosi premiati dall’Academy.
Daniel Day Lewis
Il migliore attore della sua generazione: tre statutette che potrebbero essere anche di più se Daniel non avesse deciso (salvo ripensamenti) di ritirarsi. La prima vittoria è con “Il mio piede sinistro”, l’ultima con “Lincoln”. Ma è la performance crudele de “Il petroliere” quella che resta maggiormente negli occhi e nel cuore.
Walter Brennan
Il più veloce: ma forse anche il più dimenticato. Ne ha vinti tre nel giro di appena di 5 anni, dal ‘37 al ‘41, tutti come attore non protagonista. Nato alla fine dell’800, soldato nella prima guerra mondiale e successivamente coltivatore di ananas, si diede al cinema perché sul lastrico. Ancora oggi è considerato una delle migliori spalle di sempre.
Ingrid Bergman
Trent’anni dal primo al terzo Oscar, 30 anni di carriera straordinaria, di cui molti trascorsi da ostracizzata dall’America e dai suoi Oscar perbenisti che non le perdonarono la relazione con Rossellini. Vince con 3 film che iniziano con la stessa lettera, la A: “Angoscia”, “Anastasia” e “Assassinio sull’Orient express”.
William Wyler
Uno dei grandi registi della Hollywood classica: si specializza inizialmente nei film di guerra, ma rivela poi un largo spettro di sfumature. E’ il regista di “Vacanze romane”, ma gli Oscar arrivano per “La signora Miniver”, “I migliori anni della nostra vita” e “Ben Hur”, che con 11 Oscar (insieme a “Titanic” e “Il signore degli anelli-Il ritorno del re”) è il film più premiato di sempre.
Frank Capra
Uno dei più grandi di tutti i tempi: appassionato ed etico cantore dell’american way of life, vince tre Oscar negli anni ‘30 con “Accadde una notte”, “E’ arrivata la felicità” e “L’eterna illusione”. E manca clamorosamente il quarto con il suo film più famoso, “La vita è meravigliosa”, battuto da Wyler.
Il corriere: sulla strada di Clint, l’uomo che sfidò il tempo
C'è un senso profondo, qualcosa di epico, come un passo di addio, l'etica di chi accetta il suo destino a costo di dichiararsi colpevole (sì, di tutto) quando sa di esserlo, nel cinema fondo e crepuscolare di Clint Eastwood, 88 anni che grondano leggenda in un'America dilaniata da una crisi che costringe anche la terza età a fare il lavoro sporco: autore senza filtri (<mai pensato di averne uno>), arrivato a un punto (per coraggio e anagrafe) da potere dire ciò che vuole (magari anche a due afroamericani che <no, non siamo tutti uguali>), politicamente (e pesantemente) scorretto eppure felicemente inattuale, lui, reduce di mille battaglie, che si porta dietro la saggezza di una vita vissuta. Uno che si incazza se lo scambiano per James Stewart - l'eroe positivo dei film di Frank Capra -, e si scaglia contro una modernità che ha perso il <fare> (<è il problema della vostra generazione: guardate Internet anche per aprire una scatoletta>) oltre che il <sapere>, schiava del cellulare (<non ce l'avete una vita al di là di quel telefonino?>) e di un Web <che rovina tutto>. Ci fa la morale Clint e mica gli puoi dare torto: macina chilometri sulle strade assolate della colpa e dell'espiazione, giganteggiando in un altro film-testamento in cui racconta di traffici turpi con una gentilezza fuori moda, fuori tempo, con la stessa delicatezza di una rosa che sfiorisce senza fretta. Per modellare, complice un'incredibile storia vera, l'ennesimo personaggio indimenticabile della sua galleria senza tempo, <eroe> senza ambiguità di un'epoca ambigua: Earl Stone, veterano della guerra di Corea, galante coltivatore di fiori, padre (la figlia, non a caso interpretata dalla primogentita di Eastwood, Alison, non gli parla da anni) e marito assente. Uno <sbocciato tardi>, per così dire: mai una multa in tutta la sua vita e pochissima dimistichezza con gli smartphone. Rimasto al verde, con l'ex moglie che non lo vuole nemmeno vedere all'uscio, decide allora di intraprendere una nuova <carriera>: il corriere della droga per i cartelli messicani... La prima volta è per dare una mano alla nipote che si deve sposare, un'altra per mettere a posto la sede dei reduci: insospettabile e imprevedibile, svia la polizia e arriva sempre a destinazione. Ma un giorno il gioco si fa duro.
In qualche modo autobiografico, umanista, pervaso del buon senso di chi fa la cosa sbagliata per farne – finalmente – una giusta, l'ultimo film di Eastwood mette al primo posto la famiglia, i suoi valori, e quelli di un cinema antico, schietto e onesto; a qualcuno non piacerà il sentimentalismo finale, la consumata lentezza di un viaggio verso la redenzione, ma Clint, mai come questa volta, è il padre di tutti i nostri successi e di tutti i nostri sbagli. L'ultimo pistolero che ha perso il duello con il tempo (come i suoi emerocallidi, i fiori che durano un solo giorno) e affronta disarmato tutti i suoi rimpianti: la vita che resta è un fiore reciso, ma nessuno gli potrà mai impedire di sorridere a un'altra giornata di sole.
Amore, Tempo e Morte: Collateral beauty, il lutto secondo Pirandello, Dickens e Frank Capra
Segue e riannoda, passo dopo passo, caduta dopo caduta, il filo invisibile che collega ogni cosa, il nuovo, dolente, film del regista de <Il diavolo veste Prada>: trovando quasi con stupore, nel domino infinito di una lettera senza destinatario, nell'astrazione di un mondo da sfidare perennemente contromano, una segreta, e intangibile, bellezza collaterale. Come una luce, fioca ma instancabile, quando il buio è più fondo. Là dove comanda e detta le sue regole la santissima trinità dell'esistenza: amore, tempo, morte.
E' una pirandelliana elaborazione del lutto, una resurrezione emotiva che mescola Dickens e Frank Capra con la spiritualità vagamente new age di <Sette anime>, <Collateral beauty>, film terapeutico dell'altrove più lieve David Frankel che ci invita alla grande recita che siamo, costringendoci a uscire dalle quinte del nostro stesso malessere per partecipare alla messinscena di un vivere che per quanto precario non possiamo interpretare ritagliandoci solo un ruolo da marginali comparse.
Un cinema del <ricominciare>, del <ripartire> (o del <rinascere>) che affida la sua indagine introspettiva a una rivisitazione seria della commedia fantastica, con esiti disuguali, affiancando con umana vicinanza il calvario di Howard, un ex pubblicitario di successo che si è smarrito nel tunnel della depressione dopo la morte della figlia di sei anni. Tra i suoi pochi passatempi, quello di scrivere lettere piene d'insulti: al Tempo, all'Amore e alla Morte. Nei cui panni un giorno si calano però tre attori professionisti, ingaggiati dai suoi amici più cari: soci della sua compagnia che, per salvare la baracca e cercare di scuotere Howard, provano una terapia choc.
Meglio nella prima parte, quando gli interpreti scendono dal loro piccolo palco off Broadway per interagire sul set più grande che c'è, quello del mondo <reale>, che non nella seconda dove il protagonista (fino a quel punto quasi in secondo piano) si prende l'intera scena permettendo al film di tuffarsi nel melò più spinto e di dialogare col soprannaturale, <Collateral beauty>, pur contando su un cast in realtà inutilmente esagerato (Will Smith, Edward Norton, Kate Winslet, Helen Mirren, Keira Knightley, Michael Pena, Naomie Harris...: continuo?), fonte più che altro di distrazione, ha un'idea di partenza non malvagia, ma si rivela più pretenzioso che pratico, nel tentativo un po' goffo di affrontare temi fondi e abissi esistenziali con sfilacciati concetti pseudo filosofici.