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Chiedi la Luna: First Man, quel passo verso la rinascita

Non fatevi ingannare: quello che vola verso il futuro non è un razzo sparato sulla Luna, ma una scatola di sardine lanciata contro Dio. Non c'è l'epica dell'eroismo, i sorrisi da copertina, la fede senza dubbi nella scienza: ma, piuttosto, il buio quando ancora non è notte. E la paura di non tornare più, l'etica del lavoro, il rumore del metallo e di bulloni (che meraviglia il lavoro sul sonoro...) che non smettono di tremare, nella consapevolezza che ogni trionfo, ogni, maledetta, titanica, impresa, è il frutto di una serie di drammatici fallimenti. Perché <First Man>, prima di tutto, è quello: un film sulla morte, sul lutto. Eppure proteso, ad ogni sequenza,  verso la rinascita, verso una pace che è cosa diversa, più intima, più segreta, della (vana?) gloria.

La storia vera di Neil Armstrong, il primo uomo a mettere piede sulla Luna: astronauta umile e introverso, consapevole dei suoi limiti e segnato dalla scomparsa della figlia: così come lo racconta – in modo intimo e antieroico – l'enfant prodige di Hollywood Damien Chazelle, il regista appena 33enne che ci ha già incantato con <Whiplash> e <La La Land>.

Svuotato, asciugato, di ogni facile spettacolarizzazione, ma non per questo meno emozionante (sin dalla sequenza di apertura) ed emotivamente coinvolgente, <First Man> (interpretato da Ryan Gosling, bravissimo nel lavorare di sottrazione) è uno space drama interiore, intenso e vibrante, capace di cogliere con un senso quasi malickiano dell'inquadratura (come una sorta di dolorosa tenerezza...) la dimensione più privata di un evento epocale. Un film che costringe  la macchina da presa in spazi sempre più angusti, caricando l'intera platea a bordo di un'astronave diretta verso l'ignoto: un viaggio  di andata e ritorno nello spazio  - infinito e misterioso – dell'anima.

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Meraviglia La La Land, musical romantico per idealisti e sognatori

Come si fa a non essere romantici con il musical? Suonala ancora Seb: è un film di idealisti e di sognatori, di cuori infranti e di nostalgici impenitenti, dove il limite è il cielo e l'amore (sì, l'amore) un pugno di note messe in fila, un sentimento che diventa melodia, <La La Land>. Coloratissimo e spavaldo, divertente e delizioso (e infine struggente, come quelle canzoni che ti restano in testa anche quando credi di averle dimenticate), il musical moderno (ma che omaggia quello classico) dalle 14 nomination all'Oscar (record eguagliato) e dai 7 Golden Globes vinti, è la prova inconfutabile dell'enorme talento del 31enne Damien Chazelle, il regista-sorpresa di <Whiplash> che ora guarda a Jacques Demy come anche alle sfrontate meraviglie di anni ruggenti in technicolor, quando i vecchi cinema non avevano ancora chiuso e la pellicola bruciava quando la sua mano incontrava la tua.

Elegante e magico come solo un'imprevista passeggiata tra le stelle può esserlo, <La La Land>, diviso in cinque movimenti (inverno, primavera, estate, autunno e ancora inverno, ma quello di 5 anni dopo...), accompagna a passo di danza - dopo un clamoroso prologo strappa applausi in piano sequenza dove si balla durante un ingorgo - la love story tra Seb e Mia: lei, aspirante attrice che serve caffè nel bar delle star, sta aspettando di essere notata, lui, incompreso pianista jazz, che la vita invece si stanchi di dargli addosso. Smarriti nello stesso riff, si incrociano tra i tasti bianchi e quelli neri, cercando, tra ambizioni e compromessi, di realizzare i propri sogni, grandi e luminosi come solo quelli dei film.

Auto elettriche tutte uguali, band di sfigati che suonano gli A-ah, iPhone che squillano sempre nel momento sbagliato: in una Los Angeles dove è ancora tutto possibile, terra promessa irresistibile e fasulla come una città ricostruita negli studi hollywoodiani, Chazelle, complice anche la straordinaria alchimia tra i due protagonisti, Emma Stone e Ryan Gosling (ma c'è anche John Legend), gira (benissimo) un film molto ispirato e strabordante di citazioni (non solo l'epopea di Minnelli o Ginger e Fred, ma anche <Casablanca>, <Gioventù bruciata>, l'intransigenza di Monk e i toni agrodolci dello Scorsese di <New York New York>), in cui il musical invita a ballare il melò e il sogno conosce i tormenti e le sconfitte della vita reale. E' in questa <doppia nota>, in questo passo doppio, in quella malinconia che impregna anche la felicità e le sue promesse, che <La La Land> finisce col rapirci, rammentandoci che amiamo sempre quello che dimentichiamo, mentre le sliding doors del destino sbattono contro un ultimo sguardo, prima che un battito di ciglia ci porti altrove, dove forse nemmeno vorremmo davvero essere.

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Whiplash, la condanna del talento di un outsider da Oscar

Lo ha girato in appena 19 giorni (poi mi spieghi come hai fatto) un ragazzo di appena 30 anni, Damien Chazelle, il film americano che ha sbancato il Sundance e poi a Cannes è stato salutato da un autentico boato. Un applauso interminabile che l’ha portato fino all’Oscar: 5 nomination (tra cui quella per il miglior film) e l’etichetta di outsider dell’anno.
Storia ritmatissima, prima leggera, poi drammatica infine perfida ed esaltante, di Andrew, un timido batterista jazz che vuole sfondare, «Whiplash» gioca molto sul consolidato, e a tratti anche ferocemente divertente, dualismo tra insegnante intrattabile e crudele e allievo ostinato e brillante per evolversi però in una pellicola sull’ossessione e la condanna del talento, sull’ambizione (e il «dovere») di essere il migliore di tutti, là dove, nella furiosa ripetizione del gesto, si cela il desiderio (spesso cieco) di diventare qualcosa o perlomeno qualcuno (o, magari, semplicemente «leggenda»), a costo di sacrificare tutto, amore, dignità, se stessi. Perché l’arte è proprio questo: magia sì, ma di più fatica, rinuncia, sangue.
Scritto bene, con dialoghi musicali, dallo stesso regista, qui all’opera seconda, «Whiplash» alterna virtuosistiche e tiratissime jam session da applausi a scena aperta (l’autore ha lasciato che il protagonista, Miles Teller, suonasse fino allo sfinimento...) a potenti e velenosissimi duelli verbali, alzando di volta in volta la posta in gioco. C’è il successo come martirio, oltre che l’amore per la musica e la ricerca della perfezione: Chazelle celebra la forza della determinazione ma non ne nasconde il prezzo. Ma se il suo film funziona deve dire grazie anche agli interpreti: all’abnegazione di Teller (che suona la batteria da quando aveva 15 anni), ma in particolare al talentaccio di J.K. Simmons (è il terribile docente: confronto a lui il sergente di «Full metal jacket» sembra un boy scout) che dopo decenni da caratterista si mette, con prepotenza, al centro della scena.


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