2020, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2020, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Est: tre amici e l'avventura di essere giovani

“Quanto pagheresti per un ricordo? E per un sogno? E per una speranza?”. In viaggio verso «Est» a bordo di una Renault familiare amaranto targata Forlì, tra Dylan Dog, i wurstel in valigia e l'atlante turistico alla mano: che hai voglia di farne di chilometri prima che qualcuno inventi il navigatore. Trent'anni con la zonta, prima che venisse giù il Muro e cambiasse (quasi) tutto: l'avventura di essere giovani, che ben che ti vada ti capita solo una volta nella vita. Nell'epoca in cui era ancora permesso essere ingenui, in quell'89 in cui la guerra fredda si sbriciolava sotto i colpi del piccone, un road movie che parte scanzonato e goliardico (alla «Marrakech express», non a caso uscito nello stesso anno in cui il film è ambientato) e si fa via via più consapevole: la storia vera di tre amici (uno dei quali il film l'ha pure prodotto) in fuga dal prendi due e paghi uno dell'aria serena dell'Ovest, in viaggio da Cesena verso Budapest «perché sta finendo tutto e noi ce lo stiamo perdendo». Ma una volta in Ungheria incontrano un uomo che è fuggito dalla Romania di Ceausescu e che chiede loro di consegnare una valigia alla sua famiglia a Bucarest... Girato volutamente in stile retrò, con una grana d'epoca desaturata che si fonde al materiale di repertorio (tra cui alcuni video realizzati dai veri protagonisti), l'opera seconda di Antonio Pisu (36enne figlio di Raffaele) scandisce il romanzo di formazione sulle note di «Voglio vederti danzare» e «Felicità», lasciando la porta aperta, dopo il divertimento iniziale, alla nota agrodolce, alla malinconia di una conoscenza (quella con un popolo schiacciato dalla dittatura del duce rosso) che arricchisce e costringe a crescere. Nonostante lo schematismo di alcuni dialoghi e una struttura narrativa non inedita, «Est» sa però toccare le corde della nostra gioventù inconsapevole, dimostrandosi complice dei ragazzi di allora e di quelli di adesso: merito anche di un cast affiatato dove a volti nuovi viene affiancata la faccia da simpatico frontman di Lodo Guenzi, il cantante de Lo Stato sociale, uno che fa l'attore da una vita (a teatro) ma per strada lo fermano per la vecchia che balla.

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Chiamami col tuo nome: l'incanto irripetibile di un desiderio chiamato nostalgia

Ha a che fare col desiderio, con l'attrazione, con la scoperta, con la fine dell'adolescenza, con l'urgenza e la necessità della giovinezza: che è quel momento lì, un'estate sola e quella e basta. Là dove il dubbio è se parlare o morire, oppure continuare – ancora, e ancora – a mentire a se stessi. Mentre i corpi, prima che il cuore sia esausto, scrivono un'altra lingua: l'ennesima, e la più comprensibile e autentica, nella babele degli idiomi e dei sentimenti. E' un film così, questo: in cerca di un posto che sia solo suo, di un non ripetibile incanto, di un istante segreto da conservare, sempre proteso verso il bello, smarrito in una sensualità ambigua, e insieme e antica e classica.

Una storia intima e romantica (ma dalla forte tensione erotica) che tocca, con naturalezza per nulla costruita, corde remote: che poi è la ragione, probabilmente, per cui questo piccolo film realizzato a Crema da un regista che nemmeno lo doveva girare si ritrova adesso spalla a spalla coi colossi di Hollywood, fresco di 4 nomination all'Oscar, tra cui quella per la migliore pellicola (non accadeva a un italiano dai tempi de <La vita è bella>...) dell'anno. Parabola davvero singolare e bellissima quella di <Chiamami col tuo nome>, ultrasensibile racconto di formazione sentimentale in cui Luca Guadagnino – regista incompreso e indecifrabile, poco capito in patria e amato invece senza riserve negli States, autore fin qui di film belli e respingenti o semplicemente brutti nella sovraesposizione di un talento sfociato altrove nella presunzione – maneggia con la delicatezza che si conviene ai carichi più fragili o potenzialmente pericolosi la sceneggiatura che il veterano (a giugno saranno 90) James Ivory ha tratto dal romanzo (amato assai nei giri giusti) di Aciman. Riuscendo a fare coesistere Bach e Heidegger, Eraclito e Battiato nello sguardo di Elio (Timothée Chalamet, grande rivelazione), 17enne colto e annoiato che, durante le vacanze, si sente attratto da Oliver, studente 24enne del padre che attira, ricambiandola, la sua attenzione...

Attraversati con grande fluidità gli anni '80, tra le camicie col cavallino e le scarpe con la stella, il golf sulle spalle e i telefoni a gettone, Grillo (quando ancora faceva quello che gli riusciva meglio: il comico) e Licio Gelli, Craxi e <Tootsie>, il walkman e lo zaino Invicta (ovviamente quello giallo e blu...), Guadagnino (che ha già ultimato le riprese del remake di <Suspiria>...) in <Chiamami col tuo nome> mette un po' di Rohmer e tanto Bertolucci (non a caso Aciman è un proustiano come Attilio, il padre di Bernardo), ma in quel resistere che non è desistere dei suoi personaggi trova soprattutto un suo centro, una sua verità: e la sincerità di chi getta la nostalgia nel fuoco guardandola bruciare con dolcezza.



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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

La conversione del medico egocentrico: se Dio vuole...

Si apre con una citazione di Battiato e finisce sulle note del «principe» De Gregori: ma in mezzo piange (ahimè) ascoltando Gigi D’Alessio... Fosse stato per noi, l’avremmo voluto più cinico: eppure è divertente, specie nella prima parte, quando – non ancora infilate le braghe corte da boy scout – gratta via la crosta dell’ipocrisia borghese, lasciando che il muro della razionalità si riempia a forza di testate, qua e là, di crepe. Che, se Dio vuole, questo mica è solo un duello sul ring della fede (persa o ritrovata): ma, piuttosto, la storia di una conversione. Qualcosa che ha che fare col coraggio: quello di guardare la vita e le cose da un altro punto di vista, di smussare gli angoli, di ritrovare il piacere delle curve (anche quelle cieche) là dove da troppo tempo la strada è simile a un noioso rettilineo. 
Chirurgo ateo, egocentrico e insopportabile, con moglie depressa e ubriacona, figlia decerebrata e genero miserabile cerca di stanare il prete rock con passato al fresco e accento romanesco per cui il figlio stravede: tanto da pensare di abbandonare Medicina per indossare l’abito talare... 
Partita come una brillante divagazione sul tema dell’outing (passi gay, ma prete no...), l’opera prima di Edoardo Falcone (un passato recente da sceneggiatore) si trasforma, con il passare dei minuti, nello scontro, senza esclusione di colpi, tra due idee di mondo, in cui il misantropo e apprensivo genitore col camice bianco si sorprenderà a scoprire che non è facile essere degni di portare quella veste nera; il confronto tra opposti (di spiccata personalità) strappa la risata, e il contesto (come il quadretto) risulta (anche se sopra le righe) garbato: ma pur avendo l’occasione di tentare i protagonisti con la serpe della satira, il giovane regista preferisce accompagnare con accomodante umanità il suo medico misantropo alla riscoperta di quell’io che ha smarrito tempo addietro sotto una fredda corazza. Perdendo però così da una parte l’occasione di girare un film più pieno, complesso, corrosivo: e dall’altra scivolando prevedibilmente (con codici e svolte comprensibili al «grande pubblico») in una dimensione più «sentimentale», facile, anche quando venata di malinconia. E se il film sta in piedi, alla fine, più che per il copione (che ha alti e bassi, pregi e difetti) è per l’alchimia dei due «mattatori», il chirurgo Marco Giallini e il prete Alessandro Gassman, entrambi in grande forma: due interpreti come Dio comanda.

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