Recensione, 2025 Filiberto Molossi Recensione, 2025 Filiberto Molossi

Sotto le foglie, champignon e vecchi merletti: Ozon e il giallo degli affetti

Champignon e vecchi merletti. È un giallo degli affetti ambiguo eppure salvifico, tollerante a tutto tranne che all'ipocrisia giudicante, il nuovo, «sofisticato» ma per nulla snob, film di François Ozon, che nell'autunno della vita di una Maddalena in cerca di perdono (o almeno di un Cristo capace di comprenderla) ricama un bel copione con l'ago del dubbio e il filo del sospetto, nella certezza ostinata che «tutti hanno diritto a una seconda possibilità». E a qualche sprazzo di luce che si faccia largo tra le ombre, spesse, di ieri. Che poi, magari, offuscano, rendendolo confuso, mai del tutto nitido, anche l'oggi.

Ha il garbo del noir rurale, un certo divertito retrogusto hitchcockiano, ma è un film in realtà velenoso (che sa essere anche tossico come certi funghi che è meglio non mangiare) «Sotto le foglie», gentile ma non per questo più rassicurante: una storia di fantasmi - alcuni senza volto, supposti o solo evocati, altri di «tangibile» e più acuta presenza - che si agitano nelle domande più scomode.

Anche nella placida Borgogna, dove Michelle (una bravissima Hélene Vincent) vive sola in una casa di campagna dove Parigi non manca più di tanto. E in cui, a volte, la vengono a trovare il nipotino che adora e una figlia che «non baciarmi, perché ho il raffreddore». Con lei, che si sta separando dal marito e che ha sempre bisogno do soldi, i rapporti non sono mai stati facili: ma con l'ultima visita riusciranno addirittura a peggiorare...

Sottile, intimo, riconoscente, abitato da un passato persecutorio da cui è difficile liberarsi, tra segreti, bugie e omissioni mai facili da gestire, «Sotto le foglie» ha svolte sorprendenti ma mai grossolanamente marcate dove, nel ricambio delle stagioni, la verità è solo la versione della storia che si accetta di raccontarsi prima di andare a dormire. D'altra parte la bravura - e l'eleganza - di Ozon sta proprio in questo: nel lasciare che sia lo spettatore, se proprio vuole, a provare a fare chiarezza, a riempire il bianco che resta tra le righe, a dare una forma alla reticenze, ad accettare questa o quella suggestione.

Il regista ne sta giustamente alla larga: molto più interessato a indagare le dinamiche (anche morali) e le imprevedibili trasformazioni di famiglie che avvelenato il non detto mutano forma (e formazione) con la determinata volontà di sopravvivere a tutto, anche a se stesse.

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Recensione, 2018, Festival Filiberto Molossi Recensione, 2018, Festival Filiberto Molossi

Doppio amore: il giallo dell’eros che manda in frantumi lo specchio dell’identita’

E' un film astratto e stratificato,  un thriller ad alta tensione erotica sul tema del doppio, l'ultimo film di Francois Ozon. Elegante e paranoico, ma anche improbabile, <Doppio amore> si muove tra segreti, omissioni e rimozioni, in una (auto)analisi dove la sincerità (o la mancanza di essa) diventa l'arma del delitto nell'abisso (e nel giallo) dell'amore. 

Chloé, una donna fragile (la bellissima Marine Vacth, lanciata da Ozon in <Giovane e bella>), si innamora del suo psicanalista. I suoi problemi sembrano risolti, ma andando a vivere con lui scopre ben presto che l'uomo le nasconde qualcosa...

Girato molto bene (quei primi piani rivelatori, quel modo di guardarsi negli occhi che è più di una promessa, lo split screen) e ambientato se possibile anche meglio (specie nelle sequenze del museo di arte contemporanea dove lavora Chloé), <Doppio amore> alterna però cose molte belle a terribili cadute, sconfinando, tra sorrisini diabolici e citazioni di <Alien>, nell'involontariamente ridicolo. Ozon gioca col genere, sale scale alla Hitchcock, guarda a <Inseparabili>, ma finisce con l'imitare un (brutto) film di De Palma: confermando quanto sia difficile mandare in frantumi - senza poi non doverne raccogliere i pezzi - lo specchio dell'identità.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Frantz, amore e (dopo)guerra: Ozon e i cannoni del cuore

E' un nuovo e originale tassello del suo mosaico sentimentale, della sua instancabile indagine, condotta attraverso i generi più differenti (da <Swimming pool> a <Potiche>, da <Ricky> a <Giovane e bella>), sulla natura dell'uomo. Si mette sempre alla prova – e forse è per questo che ci piace così tanto – Francois Ozon: che ora, con <Frantz>, guarda a Lubitsch (<L'uomo che ho ucciso>) e gira, con grande sensibilità (anche stilistica: un bianco e nero d'epoca, predominante, è a tratti macchiato dal colore), un melò romantico e dolente che mette movimenti di macchina tanto leggeri da essere quasi invisibili e primissimi piani coraggiosi al servizio di un mondo di sopravvissuti, incapaci di superare il lutto e di fare tacere l'odio. A meno che la menzogna, unico balsamo possibile, non possa curare le loro ferite.

Amore e (dopo)guerra nella storia di una ragazza tedesca di un secolo fa che piange il fidanzato morto al fronte: a disperarsi sulla sua tomba però un giorno trova anche un giovane francese...

Se la tensione omosessuale che sembra inizialmente attraversare la vicenda si rivela una falsa pista, il film del prolifico Ozon è un dramma rigoroso ed elegante che si muove tra le macerie anche emotive di un mondo che ha cancellato in trincea un'intera generazione, aggrappandosi a bugie che disegnano la forma imperfetta del rimorso. Manet, Verlaine, le foglie morte di un'epoca con troppi posti vuoti a tavola: colto e pittorico, forte di due ottimi interpreti (lei, Paula Beer, ha vinto il premio Mastroianni come miglior emergente all'ultima Mostra di Venezia), <Frantz>, tra diffidenza verso l'altro e cieco patriottismo, va in cerca di perdono: e di una pace interiore che possa fare tacere anche i cannoni del cuore.

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