Il ritratto del Duca, la commedia british che non abbassa la testa
È una formula rodata, un piatto che nel menu non manca mai: è quella cosa lì, una ricetta della nonna dagli ingredienti mandati a memoria. La commedia british con venature sociali (da «Grazie signora Thatcher» a «Full Monty», ma gli esempi potrebbero essere altri mille) ormai fa genere a sé: se vuoi è un po’ sempre la stessa cosa, ma per lo più, proprio perché 2+2 fa abitualmente 4, funziona. E’ il caso anche de «Il ritratto del Duca», dove la classe operaia (ma stavolta quella degli anni ‘60) va di nuovo in Paradiso, seppure non passando dalla porta principale: una storia incredibile ma vera che tocca corde giuste, ci mette la simpatia ma non rinuncia a sfidare il sistema. Kempton, disoccupato 60enne con una grande propensione a perdere con facilità qualsiasi impiego, viene arrestato perché rifiuta di pagare il canone della tv. Uscito dopo qualche giorno dal carcere decide allora di trafugare dalla National Gallery il quadro di cui parlano tutti, un ritratto del Duca di Wellington dipinto da Goya. E’ sua intenzione restituirlo: ma solo se il governo escluderà dal pagamento del canone tv gli anziani e i veterani di guerra... Ultimo film, uscito postumo, di Roger Michell (lo stesso di «Notting Hill»), «Il ritratto del Duca» rievoca una clamorosa beffa allo Stato, regalando al pubblico un personaggio strepitoso, un idealista solo apparentemente cialtronesco, ma in realtà altruista e generoso, autodidatta della vita infastidito dalle ingiustizie e insofferente alle discriminazioni, nonché marito bugiardo, padre pieno di sensi di colpa e commediografo per diletto, prolifico ma inetto. Un eccentrico e moderno Robin Hood magari non particolarmente portato per il lavoro, ma dalla battuta pronta e dal grande spirito di iniziativa. Michell, che non disdegna nemmeno l’uso di qualche inserto d’epoca, è accurato nella ricostruzione, gestisce bene le dosi e utilizza col giusto garbo il sottotesto amaro dell’elaborazione del lutto. Trovando in uno strepitoso Jim Broadbent e in Helen Mirren versione working class (Kempton e sua moglie) due splendidi interpreti di una commedia che non abbassa la testa.
Ella & John: la pazza gioia di chi il finale se lo scrive da sè
C'è tanta strada in questo film: davanti, ma soprattutto dietro. Nemmeno sempre asfaltata, a volte piena di buche profonde come segreti, altre di curve, cieche come abbracci dati ad occhi chiusi. E c'è un viaggio da fare. E sì, da qualche parte, dentro l'amarezza di giorni che stingono, c'è anche qualcosa che assomiglia alla gioia: pura, autentica, improvvisa. Anzi, pazza. Così come la <scandalosa> ribellione di chi il finale, se non vi dispiace, se lo scrive da solo: con buona pace di medici e figli, benpensanti e parolai.
Al primo film in lingua inglese della sua carriera, Paolo Virzì va alla scoperta di un'America minima, non turistica e tantomeno stereotipata, per raccontare l'ultimo giro in giostra di una coppia di anziani entrambi gravemente malati. Lui, il professore che forse tutti avrebbero voluto avere, ha l'Alzheimer, lei, lucidissima e coraggiosa, si sta spegnendo a causa di un tumore. Un giorno, senza dire niente a nessuno, salgono sul loro vecchio camper: destinazione la casa-museo di Hemingway a Key West...
Om the road agrodolce, crepuscolare, sentimentale, <Ella & John>, sequel ideale de <La pazza gioia>, è un film realizzato in maniera piuttosto convenzionale e a volte prudente, ma tenero e malinconico nel cogliere la romantica rivolta all'affronto di invecchiare di un uomo e di una donna che inseguono un'ultima occasione, un ultimo ricordo da potere, subito dopo, dimenticare.
Intima, sensibile, felice (come spesso accade nel cinema dell'autore toscano) nel mescolare toni e colori di segno anche opposto, la pellicola, che si appoggia - senza paura di schiacciarli - sulle spalle di due fenomeni come Helen Mirren (candidata per questo ruolo al Golden Globe) e Donald Sutherland, diretti da Virzì a viso aperto, senza farsi intimidire, rilegge il romanzo di Michael Zadoorian, che lo stesso regista - insieme a Francesca Archibugi (che nella Livorno di Virzì ha girato la serie <Romanzo famigliare>, attualmente in programmazione, con successo, su Rai Uno), Francesco Piccolo e Stephen Amidon -, ha adattato a una sensibilità propria, a un contesto culturale che gli era più congeniale.
Ritrovandosi così a celebrare non solo un viaggio <estremo> nell'America che si accingeva a eleggere Trump (big country che ha perso la poesia e che i due protagonisti non riconoscono più), ma, più di tutto, la storia di un grande amore. Che non accetta di essere oltraggiato dal tempo né di essere reso schiavo dalla malattia. E decide che nessuno può decidere per lui.
Amore, Tempo e Morte: Collateral beauty, il lutto secondo Pirandello, Dickens e Frank Capra
Segue e riannoda, passo dopo passo, caduta dopo caduta, il filo invisibile che collega ogni cosa, il nuovo, dolente, film del regista de <Il diavolo veste Prada>: trovando quasi con stupore, nel domino infinito di una lettera senza destinatario, nell'astrazione di un mondo da sfidare perennemente contromano, una segreta, e intangibile, bellezza collaterale. Come una luce, fioca ma instancabile, quando il buio è più fondo. Là dove comanda e detta le sue regole la santissima trinità dell'esistenza: amore, tempo, morte.
E' una pirandelliana elaborazione del lutto, una resurrezione emotiva che mescola Dickens e Frank Capra con la spiritualità vagamente new age di <Sette anime>, <Collateral beauty>, film terapeutico dell'altrove più lieve David Frankel che ci invita alla grande recita che siamo, costringendoci a uscire dalle quinte del nostro stesso malessere per partecipare alla messinscena di un vivere che per quanto precario non possiamo interpretare ritagliandoci solo un ruolo da marginali comparse.
Un cinema del <ricominciare>, del <ripartire> (o del <rinascere>) che affida la sua indagine introspettiva a una rivisitazione seria della commedia fantastica, con esiti disuguali, affiancando con umana vicinanza il calvario di Howard, un ex pubblicitario di successo che si è smarrito nel tunnel della depressione dopo la morte della figlia di sei anni. Tra i suoi pochi passatempi, quello di scrivere lettere piene d'insulti: al Tempo, all'Amore e alla Morte. Nei cui panni un giorno si calano però tre attori professionisti, ingaggiati dai suoi amici più cari: soci della sua compagnia che, per salvare la baracca e cercare di scuotere Howard, provano una terapia choc.
Meglio nella prima parte, quando gli interpreti scendono dal loro piccolo palco off Broadway per interagire sul set più grande che c'è, quello del mondo <reale>, che non nella seconda dove il protagonista (fino a quel punto quasi in secondo piano) si prende l'intera scena permettendo al film di tuffarsi nel melò più spinto e di dialogare col soprannaturale, <Collateral beauty>, pur contando su un cast in realtà inutilmente esagerato (Will Smith, Edward Norton, Kate Winslet, Helen Mirren, Keira Knightley, Michael Pena, Naomie Harris...: continuo?), fonte più che altro di distrazione, ha un'idea di partenza non malvagia, ma si rivela più pretenzioso che pratico, nel tentativo un po' goffo di affrontare temi fondi e abissi esistenziali con sfilacciati concetti pseudo filosofici.