Recensione, 2018, Festival Filiberto Molossi Recensione, 2018, Festival Filiberto Molossi

Doppio amore: il giallo dell’eros che manda in frantumi lo specchio dell’identita’

E' un film astratto e stratificato,  un thriller ad alta tensione erotica sul tema del doppio, l'ultimo film di Francois Ozon. Elegante e paranoico, ma anche improbabile, <Doppio amore> si muove tra segreti, omissioni e rimozioni, in una (auto)analisi dove la sincerità (o la mancanza di essa) diventa l'arma del delitto nell'abisso (e nel giallo) dell'amore. 

Chloé, una donna fragile (la bellissima Marine Vacth, lanciata da Ozon in <Giovane e bella>), si innamora del suo psicanalista. I suoi problemi sembrano risolti, ma andando a vivere con lui scopre ben presto che l'uomo le nasconde qualcosa...

Girato molto bene (quei primi piani rivelatori, quel modo di guardarsi negli occhi che è più di una promessa, lo split screen) e ambientato se possibile anche meglio (specie nelle sequenze del museo di arte contemporanea dove lavora Chloé), <Doppio amore> alterna però cose molte belle a terribili cadute, sconfinando, tra sorrisini diabolici e citazioni di <Alien>, nell'involontariamente ridicolo. Ozon gioca col genere, sale scale alla Hitchcock, guarda a <Inseparabili>, ma finisce con l'imitare un (brutto) film di De Palma: confermando quanto sia difficile mandare in frantumi - senza poi non doverne raccogliere i pezzi - lo specchio dell'identità.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

La ragazza del treno? Ha perso la coincidenza

Se diamo i numeri, i numeri hanno sempre ragione: 15 milioni di copie vendute - 600 mila solo in Italia -, quasi 4 mesi in testa alla classifica dei best seller del New York Times, una scrittrice con un conto in banca da sei zeri. Un obbligo, un dovere, più che una necessità, insomma, fare un film da <La ragazza del treno>. Che è romanzo sulla bocca di tutti (o comunque molti), indovinato fin dal titolo: ma che tradotto per lo schermo fatica addirittura a uscire dalla stazione, accumulando sin da subito ore di ritardo, come certe Frecce quando nevica o c'è sciopero.

Perché questo thriller femminista e inquieto, smemorato e schizofrenico, che guarda le vite degli altri scorrere dietro a un finestrino, da una distanza di sicurezza dove il resto del mondo (quello di cui non facciamo parte) sembra sempre meraviglioso, invoca prima la protezione di San Alfred (Hitchcock, ovviamente: da <La finestra sul cortile> in avanti) per poi andare in cerca di atmosfere alla <Gone girl> (qui però il regista è quello di <The help>, non di <Seven>, e la differenza si vede eccome...), non riuscendo a tenere il passo delle nostre (peraltro non eccessive) aspettative, ingarbugliandosi in un girotondo di personaggi di scarsa empatia, mantenendo, in definitiva, un voltaggio troppo basso perché la scossa (quella salutare, che sveglia) arrivi davvero a destinazione.

Storia di Rachel, alcolizzata e pendolare newyorchese che ogni mattina viaggia su un treno che non la porta da nessuna parte, se non nel tunnel della sua disperazione. Un giorno però l'ex baby sitter della donna che le ha portato via il marito scompare misteriosamente: e lei comincia a indagare...

Giocato su più piani temporali, seguendo il filo sottile che unisce i destini in bilico di tre donne (ognuna col suo vuoto segreto, con il suo carico, indicibile, di tormento), il film di Tate Taylor pecca di scarsa forza emotiva, sfruttando solo in parte l'ambiguità del racconto e i sottotesti a loro modo intriganti (l'ossessione della maternità, l'accettazione del proprio disagio) di un copione avaro di colpi di scena che, oltretutto, non rende giustizia neanche a un personaggio dolente come quello di Rachel, la cui fragilità avrebbe meritato più fortuna e suggestione. E se il discorso metacinematografico (la falsità e la parzialità di una visione sempre soggettiva) non porta spunti inediti a una riflessione abusata, anche l'altrove bravissima Emily Blunt (qui in realtà la vera sorpresa è Haley Bennett, una sorta di novella Jennifer Lawrence vista anche ne <I magnifici 7>) non sembra credere troppo ai suoi occhi gonfi. Sufficientemente professionale, come il resto della troupe, per impedire che il film deragli: ma non per evitare che corra su un binario morto.

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Protagonisti, 2016 Filiberto Molossi Protagonisti, 2016 Filiberto Molossi

L'ultimo round: la malinconia di Ali e quell'incontro con Rocky

Ci sono mille modi per ricordare the greatest, il più grande di tutti. Perché dire che Muhammad Ali è solo un pugile (sì, certo: anche il migliore di sempre) sarebbe come affermare che i Beatles erano quattro ragazzini che cantavano canzonette o che Hitchcock era un tizio sovrappeso che girava gialli. Più che davanti a una leggenda dello sport qui siamo davanti a un'icona del XX secolo, forse l'ultimo vero grande mito (giunto all'ultimo, inesorabile, round) del mondo prima di Internet, dello smart phone e della paella vegana. E allora bisogna celebrarlo per bene. Ecco, io un paio di film da suggerirvi ce li avrei.

Un documetario molto bello, ad esempio, che ha già 20 anni ma non li dimostra: "Quando eravamo re".  A finirlo, il regista Leon Gast ci ha impiegato 22 anni: prima pensava di farne un film sul concerto che doveva precedere l'incontro del secolo, quell'Ali vs Foreman ribattezzato Rumble in the jungle. Poi ha capito che del concerto non fregava niente a nessuno: e ne ha fatto uno splendido ritratto - politico e carismatico - dell'uomo che sul ring danzava come una farfalla.

Ma soprattutto, quello che ci piace ricordare è l'originale biopic che alla figura (anche culturalmente, oltre che socialmente) mastodontica di Cassius Clay ha dedicato Michael Mann. Uno che, tanto per dire, ha girato film come "Collateral", "Insider", "Heat""Alì" è uno dei suoi film più sottovalutati: ed è un peccato. Lo osteggiarono da subito, specie perché la parte del protagonista era andata a Will Smith, uno famoso fino a quel puntoper "Men in black" e "Il principe di Bel Air" . In realtà è un bellissimo film,  denso e scomodo come tutti quelli di Mann. Che a un personaggio già così raccontato, sviscerato, rimodellato, ha donato una luce diversa: una sorta di indecifrabile malinconia. Fateci caso: per tutto il film, nei trionfi come nelle cadute, nella gioia come nella rabbia, nello sguardo di Will Smith/Ali c'è un riflesso di tristezza. Un senso di rimpianto, una fitta sotto pelle. E' una lettura inedita e potente di chi, a volte, sembrava agli occhi meno attenti solo uno sbruffone, un provocatore.

Che poi vinceva perché - come ha spiegato Nino Benvenuti, uno che ne ha date e ne ha prese - non era solo il più forte: ma, soprattutto, il più intelligente. Abbastanza da essere, quando serviva, anche spiritoso: come alla cerimonia degli Oscar del 1977, quando sul palco salì Sly Stallone, reduce dal successo di "Rocky". Guardate il video per vedere cosa successe...

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