Se diamo i numeri, i numeri hanno sempre ragione: 15 milioni di copie vendute - 600 mila solo in Italia -, quasi 4 mesi in testa alla classifica dei best seller del New York Times, una scrittrice con un conto in banca da sei zeri. Un obbligo, un dovere, più che una necessità, insomma, fare un film da <La ragazza del treno>. Che è romanzo sulla bocca di tutti (o comunque molti), indovinato fin dal titolo: ma che tradotto per lo schermo fatica addirittura a uscire dalla stazione, accumulando sin da subito ore di ritardo, come certe Frecce quando nevica o c'è sciopero.
Perché questo thriller femminista e inquieto, smemorato e schizofrenico, che guarda le vite degli altri scorrere dietro a un finestrino, da una distanza di sicurezza dove il resto del mondo (quello di cui non facciamo parte) sembra sempre meraviglioso, invoca prima la protezione di San Alfred (Hitchcock, ovviamente: da <La finestra sul cortile> in avanti) per poi andare in cerca di atmosfere alla <Gone girl> (qui però il regista è quello di <The help>, non di <Seven>, e la differenza si vede eccome...), non riuscendo a tenere il passo delle nostre (peraltro non eccessive) aspettative, ingarbugliandosi in un girotondo di personaggi di scarsa empatia, mantenendo, in definitiva, un voltaggio troppo basso perché la scossa (quella salutare, che sveglia) arrivi davvero a destinazione.
Storia di Rachel, alcolizzata e pendolare newyorchese che ogni mattina viaggia su un treno che non la porta da nessuna parte, se non nel tunnel della sua disperazione. Un giorno però l'ex baby sitter della donna che le ha portato via il marito scompare misteriosamente: e lei comincia a indagare...
Giocato su più piani temporali, seguendo il filo sottile che unisce i destini in bilico di tre donne (ognuna col suo vuoto segreto, con il suo carico, indicibile, di tormento), il film di Tate Taylor pecca di scarsa forza emotiva, sfruttando solo in parte l'ambiguità del racconto e i sottotesti a loro modo intriganti (l'ossessione della maternità, l'accettazione del proprio disagio) di un copione avaro di colpi di scena che, oltretutto, non rende giustizia neanche a un personaggio dolente come quello di Rachel, la cui fragilità avrebbe meritato più fortuna e suggestione. E se il discorso metacinematografico (la falsità e la parzialità di una visione sempre soggettiva) non porta spunti inediti a una riflessione abusata, anche l'altrove bravissima Emily Blunt (qui in realtà la vera sorpresa è Haley Bennett, una sorta di novella Jennifer Lawrence vista anche ne <I magnifici 7>) non sembra credere troppo ai suoi occhi gonfi. Sufficientemente professionale, come il resto della troupe, per impedire che il film deragli: ma non per evitare che corra su un binario morto.