2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2017, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Madre! Delirio e vertigine del creare. E del distruggere

E' gonfio fino a scoppiare di allegorie, un incubo a occhi aperti malato, ansiogeno, metaforico e urlatissimo, il nuovo film di Darren Aronofsky, reduce da Venezia dove, pure essendo una delle principali attrazioni> ha raccolto più fischi che elogi, per poi però convincere la critica americana che, al di là di poche eccezioni, lo ha invece promosso e applaudito.

Una pellicola ambiziosa e disturbante, <Madre!>, che parte come un thriller claustrofobico alla Polanski e poi degenera in un horror visionario che riflette sull'atto stesso del creare: un libro, una villa, un figlio, una famiglia. O, <semplicemente>, il mondo.

Stridente e ambiguo, il film di Aronofsky - autore celebrato di <The wrestler> e <Il cigno nero> da sempre soggetto a clamorosi alti e bassi (ricordate <The fountain>? E <Noah>?) - racconta la storia di una giovane donna (Jennifer Lawrence, attuale compagna del regista: la scintilla è scoccata sul set) che divide la propria vita con uno scrittore in crisi, impegnata a ricostruire e prendersi cura della casa di lui, distrutta anni prima in un incendio. Un giorno però alla loro porta bussa una coppia che ha smarrito la strada...

Ossessivo e demoniaco, <Madre!> (impegnativo sin dal titolo, con quel punto esclamativo che piomba giù come un fulmine...) è un film febbrile (<l'ho scritto in appena cinque giorni – confessa l'autore – quando per gli altri ho impiegato anni>) ma sballato, dove con presunzione elefantiaca Aronofsky scomoda Bunuel ed Edgar Allan Poe partorendo poi il classico topolino.

Purezza dell'ispirazione, malata condivisione del successo (un sabba satanico), cannibalismo emotivo e relazionale: delirante e viscerale, claustrofobico e spiazzante, <Madre!> è una metafora coraggiosa ma squilibrata sulla creazione (e sulla fine...) dell'Universo e su quanto siamo stati capaci di corromperlo, sulla follia di un'umanità che distrugge consapevolmente e senza remore l'unica Terra (e l'unica madre) che ha. Posta l'asticella molto in alto, il film regala sequenze da capogiro (quella dell'omicidio, montata magnificamente) e ha il merito di togliere dalla naftalina e ributtare nella mischia un'inquietante (e ancora bellissima coi suoi 59 anni) Michelle Pfeiffer: ma l'aggiungere eccesso a eccesso, tra riferimenti biblici e vertigini letterarie, alla fine rischia di produrre solo un senso di repulsione.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

La ragazza del treno? Ha perso la coincidenza

Se diamo i numeri, i numeri hanno sempre ragione: 15 milioni di copie vendute - 600 mila solo in Italia -, quasi 4 mesi in testa alla classifica dei best seller del New York Times, una scrittrice con un conto in banca da sei zeri. Un obbligo, un dovere, più che una necessità, insomma, fare un film da <La ragazza del treno>. Che è romanzo sulla bocca di tutti (o comunque molti), indovinato fin dal titolo: ma che tradotto per lo schermo fatica addirittura a uscire dalla stazione, accumulando sin da subito ore di ritardo, come certe Frecce quando nevica o c'è sciopero.

Perché questo thriller femminista e inquieto, smemorato e schizofrenico, che guarda le vite degli altri scorrere dietro a un finestrino, da una distanza di sicurezza dove il resto del mondo (quello di cui non facciamo parte) sembra sempre meraviglioso, invoca prima la protezione di San Alfred (Hitchcock, ovviamente: da <La finestra sul cortile> in avanti) per poi andare in cerca di atmosfere alla <Gone girl> (qui però il regista è quello di <The help>, non di <Seven>, e la differenza si vede eccome...), non riuscendo a tenere il passo delle nostre (peraltro non eccessive) aspettative, ingarbugliandosi in un girotondo di personaggi di scarsa empatia, mantenendo, in definitiva, un voltaggio troppo basso perché la scossa (quella salutare, che sveglia) arrivi davvero a destinazione.

Storia di Rachel, alcolizzata e pendolare newyorchese che ogni mattina viaggia su un treno che non la porta da nessuna parte, se non nel tunnel della sua disperazione. Un giorno però l'ex baby sitter della donna che le ha portato via il marito scompare misteriosamente: e lei comincia a indagare...

Giocato su più piani temporali, seguendo il filo sottile che unisce i destini in bilico di tre donne (ognuna col suo vuoto segreto, con il suo carico, indicibile, di tormento), il film di Tate Taylor pecca di scarsa forza emotiva, sfruttando solo in parte l'ambiguità del racconto e i sottotesti a loro modo intriganti (l'ossessione della maternità, l'accettazione del proprio disagio) di un copione avaro di colpi di scena che, oltretutto, non rende giustizia neanche a un personaggio dolente come quello di Rachel, la cui fragilità avrebbe meritato più fortuna e suggestione. E se il discorso metacinematografico (la falsità e la parzialità di una visione sempre soggettiva) non porta spunti inediti a una riflessione abusata, anche l'altrove bravissima Emily Blunt (qui in realtà la vera sorpresa è Haley Bennett, una sorta di novella Jennifer Lawrence vista anche ne <I magnifici 7>) non sembra credere troppo ai suoi occhi gonfi. Sufficientemente professionale, come il resto della troupe, per impedire che il film deragli: ma non per evitare che corra su un binario morto.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Joy, se il sogno americano spazza via le delusioni col mocio

Cenerentola ha le idee chiare: <Non mi serve un principe>. Non vuole andare al ballo: piuttosto si accontenterebbe di pulire il bagno con facilità. In fondo, lo ha sempre saputo: per diventare principessa non ha bisogno di un cavaliere senza macchia, ma solo di se stessa. E di una scopa che spazzi via le malignità e le invidie di matrigna e sorellastra. Gran narratore delle dinamiche familiari, meglio se disfunzionali (da <The fighter> a <Il lato positivo>), un debole riconosciuto per le donne audaci (vedi <American hustle>) a cui anche questo film è dedicato, David O. Russell torna a raccontare il Paese <dove l'ordinario incontra lo straordinario ogni giorno>, celebrando – con un gusto tutto suo - l'ostinazione di un sogno americano più forte di ogni fallimento. Come nella storia (vera e vissuta) di Joy Mangano, la donna che inventò il mocio. Una che è partita con una madre teledipendente, un padre restituito dalle amanti come fosse un oggetto difettoso e un ex marito parcheggiato nel seminterrato: e un sacco di debiti. Roba che un giorno le hanno portato via anche la casa: e quello dopo si è ritrovata a guidare un impero da dieci milioni di dollari l'anno grazie alla sua <Miracle Mop> usata da tutte le casalinghe...

Esegeta di una vita sempre e comunque a ostacoli, cantore ironico della rivincita, O. Russell costruisce l'umanissima leggenda di una self made woman stanca che i suoi sogni fossero sempre in lista d'attesa rileggendo la sua avventura esistenziale con lo stile della soap opera, grazie a tocchi surreali che non faticano a fare breccia in un'America da Falcon Crest, ipnotizzata dalla propria mediocrità e dalle prime televendite.

E' il punto di forza di un film a cui manca un po' la scintilla, ma che d'altra parte azzecca tende e carta da parati quando fa il make up alla realtà, ammorbidendo, almeno stilisticamente, i contorni di un passato che vorrebbe invece mostrarci solo gli spigoli. Frullati i generi (<tra “Anna Karenina” e “Dallas” non c'è poi tutta questa gran differenza>, ha detto il regista...), O. Russell romanza il biopic e allontana l'happy end per divertirsi sulle montagne russe (perché sì, le porte in faccia sono più dei sorrisi) del melò: e anche nei momenti più spenti, trova nella fedelissima (ma sono della partita anche gli immancabili Bradley Cooper e Robert De Niro. E la new entry Isabella Rossellini) Jennifer Lawrence, candidata all'Oscar (è la quarta volta ad appena 25 anni: non so se mi spiego), una splendida e tenace protagonista. Un'attrice capace di usare il mocio con la stessa naturalezza con cui impugna l'arco in <Hunger games>: e che quando si guarda allo specchio nel riflesso fissa anche la sua anima.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Hunger games: l'ultimo atto di una saga più adult che young

Lo hanno girato anche a Parigi, hanno sparato e sono morti per finta in quelle strade dove poi, altri, solo sette giorni fa, hanno sparato e sono morti davvero. Fai fatica a non pensarci quando senti la prima raffica di mitra e nella doppiezza schizofrenica del cinema qualcuno pronuncia una frase che sembra uscita dal tg: «Vogliono distruggere il nostro modo di vivere». Solo che a dirlo stavolta e' il tiranno, il carnefice... Per quanto prima fosse feroce e crudele, d'ora in poi non e' più un gioco: non e' tempo di buoni e cattivi in «Hunger games», la saga fantasy, più adult che young, arrivata al finale di partita. Altri profughi, altri treni, altri civili uccisi: amaro e dolente, cinico e cupo come solo petrolio (protagonista di una delle scene più spettacolari) sa essere, l'ultimo atto del fenomeno cinematografico tratto dai romanzi di Suzanne Collins si porta dietro lo choc post traumatico di una guerra che e' sempre. E lascia ferite, cicatrici, intossica le coscienze, fa vacillare un già incerto sé. Uno scontro senza regole (tantomeno quelle etiche) dove Katniss, costretta suo malgrado a indossare i panni del simbolo, si batte per rovesciare finalmente il dittatore: rischiando di rimanere intrappolata nel gorgo lurido del potere. Pedina di uno spettacolo kitsch e sanguinario di cui adesso vuole riscrivere il copione.
Da eroina fantasy a personaggio tragico, la parabola della ghiandaia imitatrice votata al martirio (che ha dato popolarità mondiale a Jennifer Lawrence, una che, a 25 anni appena, ha dimostrato di sapere fare qualunque altra cosa, vincere un Oscar compreso) è completa: e se l'epilogo risulta un po' posticcio e alcune dinamiche della sfera privata avrebbero potuto essere sviluppate con maggiore finezza, il sipario cala comunque con una violenza e una presa di coscienza che superano con maturità le logiche e i tranelli del kolossal per teenager.
Efficace compromesso tra war movie, catastrofico e fantascienza antitotalitarista, il film di Francis Lawrence sposa il cinema di guerriglia facendo di questo quarto «Hunger games» un combat movie, a tratti circolare altre più labirintico e sotterraneo, attraversato dal senso di colpa, sfinito dagli eventi, segnato dai dubbi. Non conta tanto il coraggio, né il sacrificio: quanto l'affannosa ricerca di un angolo di pace dove sopravvivere agli incubi. E fare riposare anche chi (anche nella realtà, come Philip Seymour Hoffman, che qui spegne l'ultimo sorriso) è caduto lungo la strada. 

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

"Se noi bruciamo voi bruciate con noi": parola di Katniss

«Se noi bruciamo, voi bruciate con noi».
Il canto della rivolta è una ballata triste, un appuntamento all'albero degli impiccati: la melodia sussurrata e malinconica di chi sa che lo scontro decisivo è solo rimandato, che la pace, qualunque sia il suo tempo, è figlia del sangue e sorella della tempesta. 
Guarda il cielo, ma si rinchiude sottoterra, nelle viscere del tormento, in un rifugio metallico e claustrofobico che è anche condizione esistenziale, isola e prigione di uno smarrimento comune, di una medesima apnea, il capitolo finale (ma questa è solo la prima parte...) di «Hunger games», la saga antitotalitarista e orwelliana che al primo giorno d'uscita ha portato al cinema 100 mila italiani, record stagionale. 
Romantico e guerriero per definizione e ora più che mai ribelle e cupo, il terzo atto delle avventure di Katniss Everdeen, la ragazza-messia che, futuribile Giovanna D'Arco, sogna di essere solo una donna ma è chiamata a diventare un simbolo («tutti quanti vorranno baciarti, ucciderti oppure essere te»), indossa il solito costume young adult attingendo all'iconografia classica (i bombardamenti notturni del Distretto 13 ricordano quelli della seconda guerra mondiale, così come la liberazione di Peeta richiama alla memoria l'operazione per uccidere Bin Laden...) per riflettere - nell'inevitabile guerra tra il potere di uno e la rabbia di tutti - su temi trasversali come l'uso deviato dei media e la manipolazione, là dove la battaglia da vincere è prima di tutto quella della propaganda. 
A tratti teso, anche spettacolare, il fanta kolossal di Francis Lawrence, pur efficace, è però il classico film di passaggio, o film esca: ti invoglia a vedere come andrà a finire, ma non aggiunge molto (a parte il bello, anche se parecchio annunciato, strappo finale) a quanto già detto.  Dedicato a Philip Seymour Hoffman (morto prima di finire le riprese della parte II), il nuovo «Hunger games» è afflitto poi dal doppiaggio stonato di Jennifer Lawrence: per quanto la voce sia la stessa che ha accompagnato l'attrice in tutta la serie (ma non nelle altre sue pellicole), il fastidio è pari solo all'ostinazione di chi crede ancora (erroneamente) che guardare un film con i sottotitoli sia più  faticoso che salire a piedi fino all'ultimo piano dell'Empire State Building.

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