La stanza accanto: Almodovar, dolor y gloria
Nevica, fuori dalla finestra. Cade la neve sui vivi e sui morti, come in «Gente di Dublino» di Joyce, su un mondo che finge di non sapere che è condannato, sulla piscina che non hai mai usato, sulle sdraio dove parlavamo, sui libri che abbiamo letto. Su chi ha scelto come uscire di scena e su chi, semplicemente, lotta ogni giorno per sopravvivere.
Nevica nel nuovo, toccante, intimo, bellissimo film di Pedro Almodóvar che con «La stanza accanto», Leone d'oro a Venezia, gira con straordinaria eleganza (e non parlo solo delle inquadrature, di quei primissimi piani che da soli riempiono lo schermo - e il cuore -, ma anche dei dettagli della scenografia, dove ogni oggetto di design è scelto meticolosamente) un passo d'addio in cui il grande regista spagnolo, con più dolore che gloria, si confronta con la malattia, l'umanissima paura della solitudine, la morte. Che è quella, inevitabile, dell'individuo, ma anche di un mondo «disumano» che abbiamo scelto di non salvare.
Una famosa giornalista, corrispondente nelle zone di guerra, ha un tumore: quando capisce che tutto è perduto chiede a un'amica scrittrice di accompagnarla nell'ultimo viaggio, di stare nella stanza accanto quando deciderà di farla finita...
Partito dalla Rizzoli di New York, la libreria resa famosa anche da «Innamorarsi», il primo film in lingua inglese di Almodóvar (quattro candidature agli Efa, gli Oscar europei) va oltre l'eutanasia e affronta senza alcuna retorica temi ugualmente scottanti come il cambiamento climatico, la woke culture, gli effetti della guerra, l'apatia post pandemica, i danni del neoliberismo e quelli dell'estrema destra.
Ne esce una pellicola commovente a favore della dignità e del libero arbitrio che sembra sempre sul punto di trasformarsi in un thriller dell'anima, ma che in realtà è soprattutto un film sul rapporto con l'altro (su cosa ci aspettiamo, su come lo «usiamo») e sul comprendersi, anche quando è più difficile: un gioiello che le interpretazioni delle bravissime Tilda Swinton e Julianne Moore (entrambe da Oscar, con mia leggera preferenza per la prima) rendono prezioso e luminosissimo.
May December, due donne allo specchio
Due donne allo specchio: un'immagine che si sovrappone l'una all'altra, che si moltiplica fino a diventare la stessa. In un continuo gioco di seduzione e repulsione, dove ci si trucca (e si viene truccate) per diventare qualcun altro, in uno sdoppiamento dove l'arte tenta di replicare la realtà, ma finisce con il contagiarla o restarne, al contrario, prigioniera. E' un film interessante, complesso e in un certo senso anche bizzarro «May December» dell'americano Todd Haynes, dove «Eva contro Eva» incontra la commedia dark, lo psicodramma, il metacinema: una superficie riflettente e rivelatrice (anche di quello che non vorremmo sapere) su cui il regista apparecchia una pellicola dicotomica, a tratti corrosiva ma più spesso, problematica, «traumatica».
Un'attrice famosa vuole girare un film su uno scandalo che ha scosso anni prima la tranquilla cittadina di Savannah: qui, una donna di 36 anni si innamorò di un ragazzino di 13, abbandonando la famiglia per stare con lui. Oggi i due sono sposati e hanno dei figli pronti per il college: e accettano di ospitare la star - che dovrà interpretare la parte della donna - per raccontare la loro storia...
Meno raffinato che nei suoi melò più celebri («Lontano dal paradiso», «Carol»...), Haynes qui preferisce giocare con gli stilemi della soap opera e del tabloid (che divorò la vita della coppia, così come anche l'attrice in un certo senso la vampirizza) spingendo (lui da sempre grande cantore dell'eterno femmineo) sul confronto, in apparenza cortese, ma ambiguo e velenoso, tra le donne (Natalie Portman e Julianne Moore, entrambe molto brave), per rivelare però anche il dramma intimo e non conclamato di un uomo rimasto ragazzo, bruco che ancora non è diventato farfalla. «May December» (il titolo è un modo per indicare la pesante differenza di età in una coppia...) guarda a «Persona» di Bergman, denunciando il voyeurismo molto attuale (anche da parte del cinema) della condizione umana. E condannando il nostro rifiuto di «guardarci onestamente».
Freeheld: la battaglia civile del cinema lgbt
E' tempista più che bello, «Freeheld»: arriva nel momento giusto, nel pieno del dibattito, del confronto (spesso acceso, e non solo in Parlamento), sulle unioni civili, tra il ddl Cirinnà e l'ennesimo infortunio di Tavecchio. E parte da una semplice domanda, che galleggia tra le righe: perché le persone «lgbt» (un acronimo che sta per lesbiche, gay, bisessuali e transgender) non dovrebbero avere gli stessi diritti degli altri? Se lo chiede di continuo la piccola (un metro e 55 di star) Ellen Page, l'attrice di «Juno» e di «Inception» che, dopo avere fatto outing, sposa la causa interpretando e soprattutto producendo la storia vera (che aveva già dato vita a un cortometraggio poi premiato con l'Oscar) di Laurel Hester e Stacie Andree. La prima, brillante detective del New Jersey, scopre di essere malata terminale: ma prima di morire si batte sino all'ultimo perché la sua pensione vada alla compagna. Un caso che in America ha fatto scuola.
Attuale e civile, «Freeheld» (che arriva nelle nostre sale dopo «Io e lei» e prima di «Carol», in una stagione dove il cinema delle donne che amano le donne recita una parte importante) è però diretto in modo ultra convenzionale da Peter Sollett e appare mediocre dal punto di vista drammaturgico per potersi davvero candidare a film-manifesto.
Le interpretazioni sentite delle due protagoniste (la stessa Ellen Page e Julianne Moore) non riescono a togliere alla pellicola - debole rispetto ad altri film dello stesso filone («Philadelphia» su tutti) - una patina da tv-movie. I«Freeheld», per quanto doloroso e commovente, si espone così al rischio del ricatto emotivo puntando a un facile consenso: con una concezione oltretutto vecchia che poco ha in comune con la tradizione (e il coraggio) del grande cinema dei diritti civili.
Still Alice, l'arte di perdere tutto
Non so voi, ma io a volte ci penso: dove vanno le persone che si perdono, che si smarriscono? Che non sono già più anche se sono ancora: e diventano la nota stonata di una partitura che nessuno tranne loro comprende? In che mondo sono, in quale distante universo, in quale altrove di codici interrotti?
Prima ti scordi una parola, poi un appuntamento, poi te stessa: poeticamente, potresti definirla <l'arte di perdere tutto>. Ma in questi casi di poesia, purtroppo, ne resta davvero poca: svanisce anche quella, in un lontano oblio, come tutto il resto. Perché averci a che fare significa non ricordarsi la strada per il bagno di casa, litigare e dimenticarsi, un attimo dopo, perché lo si è fatto, guardare negli occhi la propria figlia e non sapere chi diavolo sia: non è solo un morbo, questo, è un'emergenza sociale. Una malattia che ti esclude dal mondo, che taglia i ponti tra te e il tuo passato. Il dramma dell'Alzheimer (la terribile sindrome da cui sono affette 36 milioni di persone) in un film co-diretto da un regista malato di Sla che ha perso l'uso della parola (oltre che delle braccia e delle gambe) e che probabilmente regalerà a Julianne Moore il primo, meritatissimo, Oscar: un rapido, inesorabile, smarrirsi che oltre che dramma privato è anche condizione esistenziale.
Fatto suo il motto cechoviano <bisogna vivere>, amarissimo eppure non disperato, <Still Alice>, tratto da <Perdersi>, best seller della debuttante Lisa Genova, racconta la parabola di un'affermata docente di linguistica cinquantenne, moglie felice e madre di tre figli, a cui viene diagnosticata una forma precoce di Alzheimer...
Ansiogeno, angosciante, <Still Alice> materializza sullo schermo la perfida deriva dell'Alzheimer: il baratro in cui si smarrisce il proprio io, lo sgretolarsi di ogni sicurezza, di ogni conoscenza acquisita, quel lento, inesorabile, scomparire ai propri occhi e a quelli degli altri. Una caduta irreversibile segnata dall'intollerabile frustrazione di non riuscire più a essere se stessi di cui il film di Richard Glatzer (presente ogni giorno sul set nonostante a causa della Sla non potesse più né mangiare né vestirsi da solo) e Wash Westmoreland dà una severa e lucida testimonianza, mostrando anche le conseguenze del morbo sulla famiglia di Alice, in particolare nel rapporto tra la protagonista e la figlia ribelle (Kristen Stewart). Seppure diretto in maniera piuttosto convenzionale, il film sa però essere emozionante (come nel caso del discorso in pubblico di Alice) e ha dalla sua una Julianne Moore capace di restituire con misura e intensità (<io non sto soffrendo, sto lottando>) l'orrore senza parole di una memoria che muore.