Chiedi chi era Nico: rabbia e ferite della sacerdotessa delle tenebre
<Sono stata in cima e poi ho toccato il fondo: ed entrambi i posti erano vuoti>.
Chiedi chi era Nico: chiedi di una bimba tedesca col padre morto in manicomio, chiedi dell'icona dei Velvet Underground, della musa di Andy Warhol. Ma anche della modella dalla voce profonda, dell'attrice che Fellini volle ne <La dolce vita>, della madre del figlio che Alain Delon non ha mai riconosciuto. Chiedi della ragazza più bella del mondo: poi donna matura, sfatta, tossica, dolente. Eppure grande, comunque.
Non so se ce lo meritiamo un film bello come quello di Susanna Nicchiarelli, che sradica le regole del biopic tradizionale per affrontare con un coraggio inusuale per il nostro cinema il mito umanissimo e intransigente della <sacerdotessa delle tenebre>, Christa Päffgen in arte Nico, cogliendone l'ebbro mistero nei titoli di coda di un'esistenza tumultuosa (tra concerti interrotti dalla polizia e confessioni notturne davanti a un limoncello), trasformando la leggenda in verità, con un procedimento inverso e contrario di chi stende il tappeto rosso dell'omaggio.
Girato in inglese, con cast e (soprattutto) vocazione internazionale, <Nico, 1988> - vincitore nella sezione Orizzonti all'ultima Mostra di Venezia - si aggira come uno spettro nell'Europa di 30 anni fa accarezzando con ruvida sensibilità ferite e cicatrici di un'artista colossale di cui la regista romana canta i tormenti che lastricarono una storia perennemente sbagliata, stonata. Un film emotivo, coerente, anti nostalgico che ha il corpo e la voce (canta lei tutte le canzoni) di un'enorme, straordinaria, Trine Dyrholm, 45enne attrice danese che esibisce senza paura, come davanti a uno specchio incapace di mentire, segni e lividi di una sconfitta che non diventa mai resa.
Quando Marcello allargò le braccia
Il cinema è fatto di sguardi, d'accordo: ma è fatto anche di gesti. Alcuni dei quali bellissimi, definitivi, iconici. Prendi La dolce vita, su cui è già stato detto tutto: è il film che ha cambiato le regole della narrazione cinematografica, quello che ha fatto di Fellini un mito, lo stesso che ha convinto Scorsese a fare il regista (e non il prete...) e ha inventato termini come paparazzo e dolcevita (nel senso del maglioncino a collo alto). Sono moltissime le sequenze di quel capolavoro a essere diventate di culto: la statua del Cristo che vola all'inizio, ad esempio, per tacere del "Marcello come here" di Anitona nella Fontana di Trevi. Roba da leggenda. Ma la sequenza che ci regala il gesto più bello (del film e forse della storia del cinema) è il finale. la spiaggia è quella di Passo Oscuro, a 5 chilometri da Fregene. Mastroianni ha una giacca bianca che farà epoca anche quella e una faccia che dice tutto: è sbattuto, ubriaco, stremato, sconfitto, rassegnato. Ha scelto il girotondo impazzito della dolce vita e non ci può fare niente. Lo sa lui, lo sappiamo anche noi: on ci sarà un "ritorno", un riscatto. Né un lieto fine. Sulla sabbia si arena un "mostro" marino, più in là, dove non la può sentire ma solo vedere, c'è Paola, una ragazzina. Ed è allora che Marcello fa quella cosa, quel gesto: la guarda e alza le braccia. Come per dire: pazienza, è andata così. Ed è un gesto bellissimo, strepitoso: che si trasforma in saluto, commiato. O in addio se preferite. Resta solo il primo piano di Valeria Ciangottini, che all'epoca del film ha solo 15 anni ed è al debutto: farà ancora tanto cinema e altrettanta televisione, ma quello sguardo e quel sorriso - che perdona tutto e tutti e ha quasi una valenza trascendente - non lo avrà mai più.
Per vedere la sequenza finale del film guardate qui:
Ma se volete vedere un altro gesto mitico continuate a leggere. Non c'entra nulla, almeno apparentemente: non so nemmeno io come mi è venuta questa associazione di idee. Ma l'altro giorno Derek Jeter, che è una leggenda del baseball americano, è tornato per l'ultima volta a giocare a Oakland. L'ultima volta perché Jeter, lasciando i suoi (milioni) di tifosi nello sconcerto, ha detto che finita questa stagione basta, appenderà il guantone al chiodo. Lui sta al baseball come Pelè al calcio e McEnroe al tennis tanto per capirci: quindi, ovunque vada, visto che gli americani (almeno nello sport) sono persone civili, gli tributano ovazioni clamorose, anche se è il capitano degli Yankees, anche se è e sarà sempre un avversario. A Oakland però Jeter se lo ricordano bene: era una notte del 2001, e New York, che nemmeno un mese prima aveva visto crollare le sue torri, giocava i play off in California. 1-0 per gli Yankees, partita bloccatissima: garn valida degli A's, Giambi piomba a casa base per segnare il pareggio. ma non ha fatto i conti con Jeter: che intercetta la pallina e fa il gesto. Anche questo, come quello di Mastroianni, bellissimo e definitivo: iconic flip play l'hanno ribattezzata gli americani. Non è molto traducibile, ma è una delle cose più splendide mai viste su un diamante, il campo di gioco del baseball. Jeter ci mette forza e insieme infinita dolcezza: lancia la pallina là dove deve andare, nel guanto del ricevitore che elimina Giambi. Gli Yankees vincono, New York, che non smette di piangere, ritrova il suo orgoglio, Jeter diventa leggenda. Ora che è un passo dal ritiro, quel lancio sembra il rovescio della medaglia di quello di Mastroianni: il saluto di una storia bellissima.
Eccolo: