Ultimo tango? Un film casto. Il pezzo che mio padre scrisse nel '73
E' tornato nelle sale per tre giorni "Ultimo tango a Parigi", il film più visto nella storia del cinema in Italia: uno dei capolavori di Bernardo Bertolucci, una pellicola che, come le streghe, mandarono al rogo. Avrei potuto scrivere un pezzo: ma davvero non sarebbe stato più bello e più "avanti" di quello che che mio padre scrisse 45 anni fa, quando il film uscì a Parma.
Chi fa politica non se ne abbia a male, ma l'avvenimento del giorno a Parma non è il Consiglio dei ministri, il C.C. del PSI, la fluttuazione della lira e neppure la frana di Citerna; bensì la prima del film Ultimo tango a Parigi del giovane regista parmigiano Bernardo Bertolucci. Quest'ultimo film gli ha dato celebrità internazionale, dopo che i precedenti – Nemo propheta in patria! – erano stati accolti con entusiasmo a Parigi e a Nuova York ma con appena tiepidi consensi nella più provinciale Italia. Ora, il morboso interesse che si è acceso attorno a Ultimo tango è probabilmente superiore ai meriti obiettivi del film, che pure non sono pochi e di tutto riguardo. Esso deriva, infatti, dalle vicende giudiziarie che hanno accompagnato l'uscita del film con il suo sequestro e il successivo processo con sentenza di assoluzione. Ciò significa che questo film intellettuale e raffinato, in origine destinato a pochi, sarà invece visto da molti, i quali accorreranno al suo richiamo per motivi diversi da quelli puramente estetici: e perciò – peggio per loro! – ne resteranno inevitabilmente delusi. Perché Ultimo tango a Parigi non è un film per tutti, ma un'opera destinata a un pubblico culturalmente preparato ed evoluto.
Il giudizio definitivo sul film resta naturalmente affidato al nostro critico cinematografico, il quale, come vuole la consuetudine di questo giornale e la prassi del buon giornalismo, è libero di esprimere le sue opinioni, quali che siano, anche se esse dovessero essere in contrasto con l'indirizzo del giornale. Qui, ci permettiamo qualche osservazione marginale e di costume.
Tanto per sgombrare subito il terreno da qualsiasi equivoco, dobbiamo dire che Ultimo tango a Parigi non è esattamente un film per educande o per abbonati alla «bibliotechina rosa». Al contrario, è un film molto forte, che contiene alcune sequenze alquanto scabrose e non propriamente liliali, debitamente vietate ai minori di 18 anni. Ma, subito dopo, va aggiunto che non è neppure il film che gli erotomani e i «guardoni» si aspettavano. Quest'ultima categoria di spettatori sarà molto più soddisfatta e stimolata da qualsiasi meschina decameronata o pseudo e volgare imitazione del Canterbury pasoliniano, mentre il film di Bertolucci – che impegna l'intelligenza – la lascerà certamente di sasso, come si usa dire.
L'ultima volta che vidi a Parma Attilio Bertolucci, padre di Bernardo (in quei giorni il film era sotto processo a Bologna), scherzosamente mi disse che dopo l'uscita del film del figlio a Parma, egli avrebbe dovuto nascondersi dietro gli occhiali scuri e un paio di baffi finti. Ebbene, dopo aver visto Ultimo tango a Parigi devo onestamente dire che Attilio Bertolucci può tranquillamente passeggiare per le vie del centro senza timore di essere segnato a dito dai passanti. A parer mio, infatti, Ultimo tango, pur nella sua crudezza e nella sua crudeltà, è un film romantico e innocente, oserei quasi dire: casto.
Lo so: il discorso su questa materia si fa insidioso e difficile, e la discussione può diventare incandescente. Ma non c'è dubbio che questa volta ci troviamo di fronte a un prodotto dell'intelligenza e di una raffinata cultura. Il film di Bertolucci, tenero e crudele al tempo stesso, è un consommé di materia grigia. Dentro, ci trovate di tutto: Bacon nei titoli di testa, Proust in quella Parigi dall'aria così smagata e sottile, Camus nel ritratto alla parete della stanza d'albergo abitata da Massimo Girotti, ecc. ecc. Poi c'è Baccanelli, con i ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza dell'autore; c'è il clima padano delle poesie di Bertolucci padre; c'è il Cine Club (non a caso il salvagente buttato in mare reca l'insegna de L'Atalante che è il titolo di un famoso film di Jean Vigo); e c'è il mito hollywoodiano del cinema degli anni 30, così caro ad Attilio Bertolucci critico cinematografico della Gazzetta di Parma (di cui il sottoscritto fu per alcuni anni il modesto «vice» e poi l'indegno successore) con quei riferimenti a Carole Lombard, a Joan Crawford e non so a chi altre attrici dell'epoca. Il film meriterebbe di essere rivisto per meglio apprezzarne lo spirito e soprattutto per meditarne il dialogo, che è parte essenziale dell'opera.
Detto questo, veniamo al nodo della questione. La Costituzione della Repubblica italiana, all'art. 21, dice che «sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume». Ma che cosa dobbiamo noi oggi intendere per «buon costume»? E quali sono i limiti dell'offesa e dell'oltraggio al pudore, fatta salva la tutela dei minori? Tutti noi possiamo oggi constatare con i nostri occhi, passeggiando per le strade, guardando le copertine delle riviste esposte nelle edicole o andando al cinematografo o a teatro, che in questi ultimi anni in Italia, come nel resto del mondo libero, la libertà di espressione del pensiero attraverso i mezzi visivi ha subito una evoluzione in senso liberale, che fino a qualche anno fa era addirittura impensabile.
Pertanto, il problema è di stabilire: che cosa è osceno, quando lo è e quali sono i limiti di oscenità accettabili ai maggiori o ai minori di 18 anni? E a questo punto, mentre il concetto di offesa al pudore si restringe sempre più (come fa fede la coraggiosa sentenza dei giudici di Bologna che hanno pienamente assolto Ultimo tango a Parigi dall'accusa di oscenità), ciascuno di noi deve affidarsi alla propria personale sensibilità. Con una doverosa avvertenza: che la legge non punisce come oscena l'opera d'arte, in quanto essa è tale. E qui, si dovrebbe aprire un altro discorso per chiarire quando un'opera è d'arte oppure no. Ma ormai il discorso si è fatto fin troppo lungo. Per cui, lo rimandiamo a un'altra volta.