Recensione, Festival, 2020 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2020 Filiberto Molossi

Lacci, quell'ipocrita e tossico stare insieme

Ha ragione Daniele Luchetti: «Sbagliano tutti». I mariti, le mogli, persino i figli. E, a volte, pure i registi. Perché è pur vero che non è difficile riconoscersi nel lessico familiare di «Lacci», nei suoi rimorsi, nei suoi rancori: il problema, se mai, è quello di trovare entusiasmo nel rapportarsi a un film che alla fine è più borghese del contesto che racconta e al tormento un po’ ipocrita di un cinema che non perdona l’altrui disagio ma non sa dare un nome e un senso al proprio. Proposto, in modo sin troppo audace, in apertura dell'ultima Mostra del cinema di Venezia (un onore-onere di cui la pellicola ha beneficiato solo in parte, non essendo, per caratteristiche proprie, particolarmente adeguata al compito), l’ultimo lavoro di Luchetti, altrove regista sensibile e ispirato («Il portaborse», «La nostra vita»), fatica a conquistare un pubblico che già ha i problemi suoi, figurati se ha voglia di accollarsi anche quelli degli altri. Così, se al minuto 37 cominci a guardare l’orologio, provando un certo fastidio per la concezione teatrale, i dialoghi sin troppo letterari (al limite del sentenzioso) e quell’indugiare, non particolarmente utile, sui primissimi piani, è abbastanza evidente che qualcosa non è scattato. E che difficilmente scatterà dopo. Ritrovato Domenico Starnone (l’autore del romanzo di successo da cui è tratto il film) a 25 anni dalla fortunata esperienza de «La scuola», il regista di «Mio fratello è figlio unico» mette in scena l’anatomia di una coppia (e l’autopsia di un matrimonio) tra momenti di trascurabile infelicità scanditi in due movimenti temporali: i primi anni ‘80, quando Aldo, due figli piccoli e un lavoro in radio, confessa alla moglie Vanda che si è innamorato di un’altra donna (una giovane e bella collega), e il presente quando i due, nonostante tutto, sono ancora insieme. Efficace quando più che alle parole («per stare insieme bisogna parlare poco») si affida ai gesti e all’espressività di sentimenti altrimenti troppo caricati ed esposti (quelle litigate mute, viste dietro a un vetro di imbarazzato silenzio), «Lacci», poco aiutato da un cast peraltro prestigioso (da Luigi Lo Cascio ad Alba Rohrwacher, da Silvio Orlando a Laura Morante: ma la più convincente e in parte è la giovane Linda Caridi), coglie con una certa verità la debolezza, il cinismo e la vigliaccheria maschile (e l’incapacità di sottrarsi dalla propria quotidianità), risultando a tratti però presuntuoso, nonché affaticato nel rincorrere le conseguenze di un amore tossico che segna tutti i personaggi. Vittime di una riconciliazione che è un atto di masochistica lealtà: moralmente corretta, ma profondamente disonesta.

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L'amore, il tempo, la memoria: Ricordi?

<Ma dovrà arrivare anche lui, no?>. <Ma chi?>. <Il futuro>.

In un mondo dove il presente non esiste e tutto è reminiscenza nitida o sbiadita, fremito dell'altro ieri, specchio retrovisore della nostalgia, un film pieno di fantasmi, di tracce solo fintamente perdute, di sentimenti mai realmente rimossi: dove gli sguardi si inseguono fino a toccarsi, mentre le parole evaporano nella nebbia, tra l'amor perduto e quello ritrovato. Che il tempo passa, ma non invano: e dentro un abbraccio ce ne è sempre un altro. E un altro ancora. Nella sfocata, a volte dolorosa, memoria di qualcosa che rimane, che resta: come quella ragazza, sotto la neve, a cui forse non si è mai dato un nome. Ma un bacio sì.

Nove anni dopo <Dieci inverni>, Valerio Mieli torna alla regia per decifrare nuovamente con la sensibilità che gli appartiene i codici segreti di un amore che è memoria prima di essere domani, mettendo al centro del suo percorso il senso stesso del tempo, di un ricordo mai completamente condiviso perché, fatalmente, influenzato dal punto di vista, dalla soggettività di chi lo vive.

Un film (premio del pubblico alle Giornate degli autori di Venezia) ambizioso il suo (si pensa a Resnais ma anche a Malick), coraggioso nel distanziarsi in maniera netta dalla banalità narrativa di molto nostro cinema, che accarezza lo stare insieme, felice e impervio, altalenante e faticoso, di una lei solare e sorridente e di un lui cupo e depresso. Muovendosi tra le pieghe di quello che è stato, in un montaggio emotivo dove i continui cambi di tono e di corpo della fotografia dettano il flusso dei sentimenti e permettono al regista - con la complicità di Luca Marinelli, profondo e stratificato, e della sorprendente Linda Caridi - di interrogarsi sul meccanismo stesso (trappole comprese) della memoria.

Non immune da un certo intellettualismo che rischia, a tratti, di diventare maniera (vedi l'uso, sovrastante, della musica), Mieli dimostra però una sincera e originale vena poetica nel girare, in quel suo frugare nei cassetti socchiusi di stanze altrove abitate. Di case che una volta erano le nostre: e di sentimenti che forse lo sono ancora.

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A Luca Marinelli il premio Schiaretti: Ricordi? al D'Azeglio

E' lo Zingaro, che in «Lo chiamavano Jeeg robot» canta a torso nudo «Un'emozione da poco», il disturbato Andrea de «La grande bellezza», il pallido Cesare di Ostia nel passo d'addio di Caligari, ma anche il partigiano Milton di «Una questione privata», il portiere di notte di «Tutti i santi giorni», il tormentato Fabrizio De Andrè, amico fragile e principe libero. Se il nuovo cinema italiano ha un volto, una faccia, un'espressione - mai banale, mai comoda - in cui riconoscersi, è quella scavata e irregolare di Luca Marinelli, classe '84, senza dubbio e per distacco il migliore attore (insieme ad Alessandro Borghi, suo compagno di disagio e di avventure nel folgorante «Non essere cattivo») della sua generazione. Sensibile, timido, impegnato nel sociale, capace di abbandonare la sua Roma ed emigrare a Berlino per seguire la ragazza giusta, Marinelli, lanciato da «La solitudine dei numeri primi», è uno che è cresciuto col poster di Marlon Brando attaccato al muro e tra indiani e cowboy ha sempre fatto il tifo per i primi: un interprete in grado di spingersi sempre ai limiti, innamorato di ruoli «altri» (quelli meno «spiegati», meno «nitidi») a cui donare straordinaria sincerità e urgenza, padre e figlio di un'Italia complessa, che non regala niente a nessuno. Un'originalità e un coraggio il suo che ne fanno dunque un perfetto vincitore del premio Schiaretti, il riconoscimento - dedicato alla memoria del nostro indimenticato collega - che, promosso dal Cinema D'Azeglio società cooperativa in collaborazione con l'assessorato alla Cultura del Comune, va a celebrare un protagonista del nuovo cinema italiano.

Il premio gli verrà consegnato sabato alle 20.15, durante una serata da non perdere in cui, al D'Azeglio, Marinelli porterà a Parma il suo ultimo film, «Ricordi?», una grande storia d'amore che - in un presente che si fa memoria - racconta con sensibilità il viaggio nella vita di un lui e di una lei tra reminiscenze, stati d'animo e punti di vista inevitabilmente differenti. L'attore sarà accompagnato dal regista Valerio Mieli e dalla co-protagonista Linda Caridi che incontreranno il pubblico prima della proiezione del film. Per il Comune sarà presente l'assessore alla Cultura Michele Guerra. Il premio Schiaretti, uno dei fiori all'occhiello del D'Azeglio, sala che con continue rassegne di stampo anche sociale rappresenta un faro per l'Oltretorrente, vivrà così sabato la sua ottava edizione: ultima a vincerlo fu Jasmine Trinca.


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