Freaks out, gli X-Men all'amatriciana nella Roma città aperta
Le persone normali non hanno niente di eccezionale: forse per questo Gabriele Mainetti, dopo il successo clamoroso di «Lo chiamavano Jeeg Robot» (film-fenomeno di qualche anno fa) resta dalla parte degli emarginati, dei diversi, degli strani, degli «imperfetti», degli «altri». Girando un film di sconfinata ambizione che cerca la cifra di Tim Burton ma, privo dell'ironia di un «Bastardi senza gloria», finisce piuttosto per sembrare una versione de noantri degli X-Men. Dispiace perché l'attesissimo «Freaks out» di coraggio ne ha da vendere e non solo le dimensioni della produzione sono inedite nell'ambito del nostro cinema, ma anche il desiderio di smarcarsi da uno sguardo omologato, di intraprendere la strada di un genere qui da noi pochissimo frequentato, rivisto in senso autoral-popolare e forse in grado di intercettare i millenials. Ma l'epica avventurosa di questa favola fantasmagorica che si muove tra citazioni altissime (da «Roma città aperta» a «Il mago di Oz»...) fatica, nell'attraversare la tragedia della Storia, a camminare alla pari delle proprie aspirazioni, coltivando uno stupore che non riesce ad appassionarci. Ambientato nella Roma occupata del '43, il film racconta di quattro giovani circensi dai poteri speciali che cercano ovunque il proprietario del loro piccolo circo, catturato dai tedeschi perché ebreo... Visionario ma bislacco a livello narrativo, «Freaks out» non bada a spese dilatando però sin troppo (la battaglia finale non finisce mai...) i tempi: e alla fine l'azione prevale sul divertimento.
A Luca Marinelli il premio Schiaretti: Ricordi? al D'Azeglio
E' lo Zingaro, che in «Lo chiamavano Jeeg robot» canta a torso nudo «Un'emozione da poco», il disturbato Andrea de «La grande bellezza», il pallido Cesare di Ostia nel passo d'addio di Caligari, ma anche il partigiano Milton di «Una questione privata», il portiere di notte di «Tutti i santi giorni», il tormentato Fabrizio De Andrè, amico fragile e principe libero. Se il nuovo cinema italiano ha un volto, una faccia, un'espressione - mai banale, mai comoda - in cui riconoscersi, è quella scavata e irregolare di Luca Marinelli, classe '84, senza dubbio e per distacco il migliore attore (insieme ad Alessandro Borghi, suo compagno di disagio e di avventure nel folgorante «Non essere cattivo») della sua generazione. Sensibile, timido, impegnato nel sociale, capace di abbandonare la sua Roma ed emigrare a Berlino per seguire la ragazza giusta, Marinelli, lanciato da «La solitudine dei numeri primi», è uno che è cresciuto col poster di Marlon Brando attaccato al muro e tra indiani e cowboy ha sempre fatto il tifo per i primi: un interprete in grado di spingersi sempre ai limiti, innamorato di ruoli «altri» (quelli meno «spiegati», meno «nitidi») a cui donare straordinaria sincerità e urgenza, padre e figlio di un'Italia complessa, che non regala niente a nessuno. Un'originalità e un coraggio il suo che ne fanno dunque un perfetto vincitore del premio Schiaretti, il riconoscimento - dedicato alla memoria del nostro indimenticato collega - che, promosso dal Cinema D'Azeglio società cooperativa in collaborazione con l'assessorato alla Cultura del Comune, va a celebrare un protagonista del nuovo cinema italiano.
Il premio gli verrà consegnato sabato alle 20.15, durante una serata da non perdere in cui, al D'Azeglio, Marinelli porterà a Parma il suo ultimo film, «Ricordi?», una grande storia d'amore che - in un presente che si fa memoria - racconta con sensibilità il viaggio nella vita di un lui e di una lei tra reminiscenze, stati d'animo e punti di vista inevitabilmente differenti. L'attore sarà accompagnato dal regista Valerio Mieli e dalla co-protagonista Linda Caridi che incontreranno il pubblico prima della proiezione del film. Per il Comune sarà presente l'assessore alla Cultura Michele Guerra. Il premio Schiaretti, uno dei fiori all'occhiello del D'Azeglio, sala che con continue rassegne di stampo anche sociale rappresenta un faro per l'Oltretorrente, vivrà così sabato la sua ottava edizione: ultima a vincerlo fu Jasmine Trinca.
Lo chiamavano Jeeg Robot: arriva il super perdente cacio e pepe
Siete stanchi dei muscolosi e vitaminizzati Thor e Capitan America? L'Uomo Ragno vi rampa su per una braga e Hulk vi sembra sovrappeso? Beccatevi il supereroe «cacio e pepe». L'ideuzza non è male, anzi: negli anni plasticosi in cui al cinema imperversano (nel bene e nel male) aitanti e problematici eroi dai poteri clamorosi, qui si butta sullo schermo un ultra perdente all'italiana, balordo nostrano che di super non ha neanche la benzina.
Tentativo interessante di realizzare un cinecomics verace, senza peraltro partire da un fumetto esistente, «Lo chiamavano Jeeg Robot» lo ha girato, all'ombra dei palazzacci di Tor Bella Monaca, il debuttante Gabriele Mainetti, che dentro ci ha messo un po' di tutto: i manga, certe facce alla Pazienza, Tarantino, «Kick Ass», «Scott Pilgrim» e le canzoni di Nada e Anna Oxa... Ne viene fuori una favola pulp dai colori accesi e pop, risposta made in Italy e iconoclasta ai lucidatissimi personaggi della Marvel: peccato però che, nonostante la spavalderia, tutto o quasi (specie a livello estetico) sia già visto e rimasticato.
Anche se stavolta il supereroe è un senza Dio cresciuto in periferia, brutte scarpe di camoscio ai piedi e una passione smodata per i film porno e per lo yogurt. Uno come Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria, bravo), insomma: ladruncolo da strapazzo che dopo un bagno imprevisto nel Tevere viene a contatto con delle scorie nucleari che gli donano una forza sovrumana. Abbastanza da dare una svolta alla sua carriera criminale...
Spintissimo sin dalla prima uscita alla Festa del cinema di Roma (dove venne accolto da ovazioni e applausi a scena aperta), sostenuto da una campagna promozionale a tappeto (Santamaria l'altro giorno era persino a Sky Sport, per dire) e favorito da una data di uscita scelta con molta attenzione, «Lo chiamavano Jeeg Robot» (che nel titolo richiama un famoso cartoon giapponese degli anni '70) è un film acido, violento, anche divertente, che strizza l'occhiolino a più non posso allo spettatore, eccedendo però nel grottesco e cercando giustificazioni serie (la ragazza abusata da piccola, le bombe fatte esplodere dalle cosche) a un contesto (specie nella seconda parte, quando la pellicola, partita bene, cala) più sguaiato che irriverente.