Il traditore: Bellocchio e il melodramma di Cosa Nostra
La mafia? Non esiste. Però c’è Cosa nostra: ed è un grande melodramma. Te ne accorgi quando Bellocchio spara il Va’ pensiero a tutto volume mentre il giudice del maxi processo scandisce le condanne e i nomi degli imputati scorrono in sovrimpressione. E’ una delle sequenze più potenti del film, tesissimo, spettacolare, bello veramente, che il regista piacentino ha dedicato al “pentito” Tommaso Buscetta, un uomo che aveva un sogno: morire nel suo letto. E’ grande cinema e lo si capisce sin da subito, dalla prima mezz’ora quasi scorsesiana (tra balli, feste e omicidi) e poi avanti, tra innesti onirici rischiosi ma che invece funzionano alle perfezione (quel funerale da vivo, ma anche Andreotti che esce in mutande dal negozio del sarto...), flashback rivelatori (di un’educazione criminale, soprattutto), insopportabili sensi di colpa degni della tragedia classica che ne fanno uno spaccato rigoroso e insieme mitologico della recente storia italiana. Come ne “I pugni in tasca” (l’esordio di 54 anni fa), come in tutto il suo cinema, è ancora la famiglia a finire alla sbarra: in questo caso quella “mafiosa” (ma non solo), comunque violata, sempre disfunzionale. Un film, “Il traditore”, dove Bellocchio, lucido e vitalissimo nei suoi (quasi) 80 anni, recupera la grande tradizione del cinema civile italiano e tra un Falcone (finto) e un Borsellino (vero), costruisce sul volto di un bravissimo Pierfrancesco Favino -a cui ora sarà complicato non dare un premio -, il ritratto di un italiano vero.
Sicilian ghost story, la favola nera della mafia
<Quindi dovrei fare finta di niente, come tutti? Tanto la vita continua, no?>.
E' una goccia e sarà pure una goccia nel mare: ma scava la roccia, <Sicilian ghost story>. E va oltre i rosari e le donne vestite sempre di nero, le facce mute dietro le finestre e i singhiozzi al di là delle porte, le parole smozzicate e i silenzi smisurati: per abbattere il muro dell'omertà e della dimenticanza, dell'appiattimento di un ricordo che rende le vittime tutte uguali e tutte ugualmente senza storia. Lo fa con un'idea forte, provocatoria: trasfigurando un atroce fatto di mafia in una favola nerissima eppure non rassegnata, rifiutando sia il realismo scontato di certo cinema di denuncia che la rappresentazione retorica e stereotipata di alcuni modelli televisivi che rileggono con scarsa verità l'attualità. Per abbracciare invece, in una scelta che è politica oltre che stilistica, il genere fantastico, di cui conserva, a suo modo, i miti e gli elementi fondanti: la foresta, gli orchi, i passaggi segreti, una natura ambigua e bivalente, i fantasmi.
Opera seconda, collerica, dolorosa, anche potente, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che si erano messi in luce vincendo 4 anni fa a Cannes con <Salvo> la Semaine della critique (la sezione che quest'anno hanno avuto l'onore di inaugurare), <Sicilian ghost story> racconta di Luna, dodicenne che, sola contro tutti, cerca ovunque Giuseppe, il compagno di scuola di cui è innamorata, sparito da un giorno all'altro nel nulla...
Dedicato al piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito e per questo vittima di uno dei più spregevoli, efferati e inutili omicidi di Cosa nostra (che lo sequestrò per 779 giorni per poi ucciderlo e scioglierlo nell'acido), il film di Grassadonia e Piazza (che mercoledì sera saranno a Parma, all'Edison, per incontrare il pubblico) ricorre a una Sicilia inedita per coglierne la dimensione di mondo a parte, mettendo in evidenza, tra inquadrature a terra, uso del grandangolo e spazi soffocanti, gli stilemi riconducibili all'horror di una terra ostile, divorata dalla paura e dall'indifferenza. Ispirato a un racconto contenuto nella raccolta <Non saremo confusi per sempre> di Marco Mancassola, <Sicilian ghost story>, interpretato nella parte dei protagonisti da due esordienti (Julia Jedlikowska e Gaetano Fernandez), trova nella fiaba (così come già <Il labirinto del fauno> e, in parte, <Io non ho paura>) una valenza simbolica che restituisce autenticità e credibilità a una realtà altrimenti annacquata, sfibrata da troppe delusioni: quella in cui l'ostinazione della protagonista, la sua incapacità di arrendersi e il suo rifiuto di essere complice del sistema degli adulti, rappresentano i semi di una coscienza civile che appartiene alle nuove generazioni. Le uniche in grado di convincere gli dei a tornare.