L’orto americano: Avati coltiva i frutti del dubbio
Il regista che parlava coi morti: a 86 anni Pupi Avati, da sempre a suo agio nel torbido, trova al confine tra l'acqua dolce del Po e quella salata del mare un film con cui riabbracciare il gotico, coltivando ne «L'orto americano» i germogli della follia.
Girato in un bianco e nero severo e denso, il nuovo film del regista bolognese di «Regalo di Natale» e «Una gita scolastica», cita i classici greci (da Archiloco a Bacchilide, passando per Pindaro) e richiama alla memoria certe atmosfere noir della Hollywood degli anni Quaranta, seguendo nell'immediato dopoguerra il tortuoso percorso di un giovane scrittore incompreso che si troverà a indagare sulla scomparsa di una bellissima infermiera che aveva incrociato in Italia per un istante, innamorandosene al primo sguardo...
Suggestivo nelle diverse ambientazioni, con dettagli horror che richiamano alla memoria alcuni mostri della cronaca nera (come quello di Firenze), il film, tratto da un romanzo dello stesso regista e interpretato da Filippo Scotti («E' stata la mano di Dio»), Roberto De Francesco e da molti fedelissimi del regista (da Andrea Roncato al parmigiano Alberto Petrolini), confonde le acque, ma non non sempre il congegno narrativo appassiona e la risoluzione (parziale) del giallo appare un po' telefonata, suggerita, anche se l'autore privilegia un finale aperto, sospeso. Perché «L'orto» di Avati riserva allo spettatore i frutti più amari: quelli del dubbio.
Dante, il giovane favoloso che sapeva il nome vero delle stelle
Non il Sommo, ma l'esule, l'innamorato infelice, il rifiutato, il dimenticato, «traditore» a sua volta tradito, senza averi, né perdono né patria, che non fosse la sua straordinaria poesia. Sta (giustamente) lontano dal mito, quello ingessato dell'interrogazione di italiano alla terza ora, e cerca - nei tormenti del giovane favoloso che sapeva il nome vero delle stelle - l'uomo, il disperso, lo sconfitto, facendone il personaggio non comune dell'umana tragedia, che qualcuno, non senza ardire, definisce «commedia».
Forse, a questo punto, la vera provocazione sarebbe stata quella di fare un film su Dante senza Dante: l'inchiesta su un sepolcro vuoto, il mistero incomprensibile di un talento senza uguali, l'indagine sui tasselli mancanti di quel mosaico incredibile e perfetto. Avati, che questo sogno - con ambizione e determinazione - lo ha inseguito a lungo e per lungo tempo cercato, non arriva a tanto: ma gioca comunque di sponda, non lasciandosi condizionare eccessivamente dal biopic wikipedistico, per lasciare piuttosto il «caso Alighieri» nelle mani ferite e umiliate dalla scabbia (come fossero le scomode stimmate della santità della poesia) di un riconoscente Boccaccio.
E' l'approccio giusto di un film anche toccante che viaggia nelle lande a volte desolate della memoria, tra le tracce di un'arte, che per quanto immensa, è di per sé stessa, sempre mendicante. Ma che d'altra parte ha anche zavorre pesanti (la voce off, che lo rende inutilmente didascalico), inciampi e stonature evidenti (Beruschi doppiato, la sequenza onirica che ha per protagonista Beatrice, altrove invece magnetica), volti deturpati più dalla chirurgia plastica che dalla peste. Problemi che l'84enne regista bolognese prova, pur con eccessiva prudenza, a superare con la sincerità e il trasporto dell'operazione, la prova partecipata degli interpreti (Sergio Castellitto è Boccaccio, ma ci sono anche i nostri Mauro Coruzzi, nella parte di un monaco, e Alberto Petrolini), le intuizioni (il dipinto che prende vita) stilistiche e pittoriche. Nella consapevolezza che - nel silenzio e nella solitudine di Dio -, non è solo l'amore, ma è anche il poeta, l'artista, il visionario, che «move il sole e l'altre stelle»
Lei mi parla ancora: i ricordi immortali di Avati e Pozzetto
È un film con cui si fa pace volentieri con Pupi Avati, questo: una specie di abbraccio inaspettato, nel momento in cui sono vietate anche le strette di mano. Sarà che c'è una commozione autentica - e sincera - nell''orto dei morti, dove la vita è altrove e una promessa è per sempre, sarà che l'82enne regista bolognese, lucidissimo nelle intenzioni e ispirato nel modo, disegna una geografia sentimentale che prima ancora di memoria è fatta di oggetti, di gesti segreti, di luoghi: come quella provincia del profondo nulla, dove è permesso anche di nevicare quando a Roma invece già splende il sole. Sarà (anche) per questi motivi che «Lei mi parla ancora» ti tira per la giacca, ti costringe a restare quando credevi di dovere andare, ti chiede di muoverti con attenzione perché i ricordi belli sono fatalmente anche i più fragili e meritano cura, pretendono costanza, accortezza, considerazione. E così, nel raccontare con laica tenerezza la sacralità di un amore lungo più di una vita, Avati gira un film sull'affetto che sopravvive alla morte, sulla paura della solitudine, su quel che resta del giorno. E sulle parole che non usa più nessuno. Avventurandosi in punta di piedi, col giusto pudore, nelle vite degli altri: che poi sono quelle del Nino e della Rina che di cognome (ma non è qui che lo verrete a sapere) fanno Sgarbi: già proprio quelli, i genitori di Vittorio e Elisabetta. Dettagli. Perché quel che conta è la disperazione di un uomo che non sa rassegnarsi alla morte della moglie: per scuoterlo la figlia gli chiede di raccontare la loro storia a un ghost writer, che ne faccia un libro. Nino è scettico, non è convinto: come farà quello scrittore in bolletta a scrivere la sua vita se non sa nemmeno mettere ordine alla propria? Il brodo coi cappelletti, una casa piena di capolavori e quel dolore brutto che non vuole andare via: mentre i tempi si confondono e il flashback scolora nel sogno, Avati cuce sintonie là dove in apparenza ci sono solo differenze, intreccia vite quando il destino sembra invece separarle. E nel tradurre in immagini il libro di Giuseppe Sgarbi trova una cifra, nonostante un impianto vecchio, una parte centrale a tratti faticosa, un controcampo (quello dello scrittore) che funziona molto meno della vicenda principale. Ma tra Pavese e Bergman, tra il ricordo che porta e quello che lascia, il film rende tangibile il giuramento dell'immortalità. Merito anche di un cast (dove nel ruolo del sindaco di Stienta trova spazio anche il parmigiano Alberto Petrolini) segnato dalla struggente presenza di Renato Pozzetto, a cui Avati a 80 anni regala il primo, dolcissimo, ruolo drammatico.
I 10 Pesci d'aprile cinematografici che vorremmo fossero veri
1. Kubrick, che è vivo, sta girando un documentario per spiegare come ha fatto a convincere Tito Stagno e Ruggero Orlando che siamo andati sulla Luna, quando invece, come ogni buon complottista sa, ha girato lui nel '69 il finto allunaggio.
2. Nel remake di Basic instinct Sharon Stone resta bloccata mentre cerca di scavallare le gambe: la produzione per finire la scena è costretta a chiedere l'intervento di Giucas Casella.
3. Nanni Moretti odia con tutto il cuore la Sacher Torte: in realtà, adora la Sbrisolona.
4. Nel prossimo "50 sfumature..." il pubblico potrà fustigare in sala regista e sceneggiatori.
5. Aveva ragione Fantozzi: Zoff contro l'Inghilterra ha davvero segnato di testa su azione di calcio d'angolo.
6. Johnny Depp non si è mai lasciato con Vanessa Paradis, ma stanco dell'attenzione dei media gira apposta da un po' solo film orribili per farcelo credere.
7. Per continuare nella lunga serie di presidenti virtuosi il Parma calcio chiede di essere comprato da Darth Vader, che lascia Guerre stellari e accetta a condizione di potere nominare Yoda ds.
8. Jack Torrance, il protagonista di Shining, va a "C'è posta per te" per ritrovare la sua Wendy.
9. L'Academy ci ripensa e assegna l'Oscar a DiCaprio (va beh, questa era un po' grossa...)
10. Pupi Avati va a Bollywood. E ci resta.
Io, protestato da Avati: come una medaglia sul campo
Ora che l'incontro c'è stato e le bocce sono ferme, credo che questa storia si possa anche raccontare: sono stato "protestato" da Pupi Avati. Nel senso che avrei dovuto presentare e intervistare io il regista bolognese sabato sera a Parma: ma lui non ha voluto. Pare che l'abbia messa come condizione sine qua non: se c'ero io, (che ero stato chiamato dall'esercente della sala) non veniva lui. La cosa in sè è abbastanza comica: un regista che ha paura di un critico non si sentiva da decenni. Ringrazio pubblicamente Avati per tutta questa considerazione: rischio di montarmi la testa. Perché sì, il "gran rifiuto" del regista bolognese vi assicuro equivale a una medaglia al valore ottenuta sul campo, a un encomio, se non a una laurea con lode. La cosa però ha contorni paradossali. Perché io Avati l'ho presentato innumerevoli volte: tutti incontri (per merito suo, si intende, che è un bravissimo affabulatore) affollati e andati benissimo. E allora da dove arriva tutto questo astio? Qualcuno dice dalla mia recente recensione di "Un ragazzo d'oro". Se è così mi permetto di stupirmi: per quanto abbia messo in evidenza certi già di per sè evidentissimi difetti (tipo l'inutilità di Sharon Stone...) sono stato - in Italia (isole comprese) - tra i critici più teneri nel gudicare la sua ultima creatura, dove vi ho trovato anzi anche cose belle. E allora? Qualcun altro sostiene che la ragione è un'altra: Avati si sarebbe legata al dito un'altra recensione (quella sì - pare - parecchio negativa) che ho scritto anni fa e da allora starebbe rimuginando. Ma dici sul serio? Mah... D'altro canto qualcosa a sto povero cristo gli devo pure avere fatto: anche perché Avati - come Bruto - "è uomo d'onore: e io non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so". E io in questa storia scorgo un'enorme piccolezza. Vuoi vedere che è colpa mia se "Un ragazzo d'oro" è stato un flop clamoroso? Se il primo weekend è arrivato appena all'ottavo posto nella classifica degli incassi e nella seconda è addirittura uscito dalla top ten? Vuoi vedere che sono così potente? Vuoi scommetere che è colpa mia anche il buco dell'ozono e forse pure il gol annullato a Turone nell'81? Onestamente, non credo. Ma è andata così.
Questa storia alla fine me ne ha fatta venire in mente un'altra, anche questa in parte illuminante del contesto in cui si muove un critico. E' successo diversi anni fa e non ricordo nemmeno per quale film: ma un esercente - che ora non fa più quel lavoro - mi tolse, oltre che il saluto, la tessera d'ingresso alla sala perché a suo dire con una mia stroncatura gli avevo rovinato la partita a golf. Poco male: io ho continuato ad andare al cinema e lui non è mai entrato nella formazione del Team Europe per la Ryder Cup.
Che poi un fatto analogo accadde anche a mio padre: venne bandito da una sal perché si era permesso di criticare un classico, "Duello al sole". Ci rise su. Io il film l'ho rivisto di recente e sai che ti dico? Avevi ragione tu, papà.